sabato 8 dicembre 2007

08.12.07 Vertice di Lisbona 2

Messo in ombra, soprattutto sui grandi mezzi d’informazione, dalle polemiche relative a qualche paese bollato con il marchio delle ‘violazioni dei diritti umani’ - una cortina fumogena dietro cui alcuni governi nascondono più rabbiose insoddisfazioni legate a scelte economiche e politiche - il vertice afro-europeo in corso fino a domani in Portogallo, a Lisbona, dovrebbe costituire la prima tappa di un nuovo cammino che l’Unione Europea (UE) intende avviare nelle relazioni con l’Africa. L’incontro attuale - a cui partecipano 40 presidenti e 27 capi di governo di altrettanti paesi oltre ai rappresentanti di altri 13 paesi - difficilmente potrà riprendere le fila del primo vertice di sette anni fa, quando non esisteva l’Unione Africana (UA), quando nel continente erano in atto numerosi e vasti conflitti, quando l’economia africana non era trainata dalle continue scoperte di giacimenti di idrocarburi e dall’alto prezzo del petrolio o delle materie prime che l’attestano oggi su tassi di crescita costanti superiori al 5%. Nel 2000 non si parlava ancora di cosiddetta ‘guerra al terrorismo’, di migrazioni o di cambiamenti climatici né di riforma dell’Onu. Un editoriale del quotidiano ivoriano ‘Fraternite Matin’ ha ricordato ieri che sette anni fa la concorrenza all’Europa in Africa era scarsa e solo agli inizi: i singoli paesi del vecchio continente, infatti, continuavano ad avere rapporti preferenziali se non di vero e proprio monopolio con le proprie ex-colonie africane. Negli ultimi anni, accanto a Washington – che anche qui tenta di vestire i soliti panni dell’esportatore di democrazia, libertà e difesa dei diritti umani ma in realtà è come sempre e ovunque a caccia di risorse naturali di ogni genere, a partire dal petrolio - sono comparsi sulla scena africana Repubblica popolare cinese, India, Brasile, provocando qualche rimescolamento di carte che sembra risolversi anche a danno della Francia. Qualche esempio: il Rwanda si allontana dalla lingua francese per parlare sempre più l’inglese e prepararsi ad entrare nel Commonwealth; la Costa d’Avorio, pur pagandolo a caro prezzo, ha preso le distanze dal monopolio francese; il Centrafrica ha concesso, per la prima volta dall’indipendenza, permessi per prospezioni di uranio ad aziende non francesi. Come ha scritto il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, l’Africa è diventata un “obiettivo geo-strategico maggiore sulla scena internazionale” e l’Europa ha bisogno di stabilire “non più una strategia dell’Europa per l’Africa, ma una strategia congiunta, per la prima volta nella storia”, per usare le parole del primo ministro portoghese José Sócrates. “Dobbiamo voltare la pagina post-coloniale per creare un vero partenariato tra pari tra l’Europa e l’Africa” ha aggiunto il segretario di stato portoghese per la cooperazione, Joao Gomes Cravinho. Un’era post coloniale che a volte è passata anche per le condizioni poste, quasi mai in maniera esplicita, ai governi del continente per vincolare aiuti e investimenti e dietro le quali si nascondeva in molti casi la strenua difesa di privilegi derivanti dall’epoca coloniale. Un meccanismo scardinato dal pragmatismo affaristico, ma che è ancora capace di possenti rigurgiti, come il caso Zimbabwe in realtà dimostra. Nel dipingere il ‘mostro Mugabe‘, infatti, Londra, e con lei molti media occidentali, negli ultimi sette anni si è dimenticata di raccontare una parte della storia: quella che vedeva proprio nel 2000 scadere, in base agli accordi di Lancaster House sottoscritti più di 20 anni prima da Londra e dall’allora nuovo governo ‘nero’ di Robert Gabriel Mugabe , i termini per l’avvio della riforma agraria con la quale si sarebbe dovuto garantire (grazie anche alla partecipazione economica inglese) una più equa distribuzione delle terre fertili dello Zimbabwe che, in base a diritti di proprietà coloniali, erano per oltre il 70% nelle mani di una minoranza di famiglie inglesi o di origine inglese. Proprio il caso Zimbabwe (e il divieto di ingresso in territorio europeo al suo presidente, previsto dalle sanzioni prese da Bruxelles dopo le pressioni londinesi) aveva fatto saltare il vertice afro-europeo previsto nel 2003 e ha rischiato di far saltare anche quello di Lisbona. E ancora una volta è proprio il caso Zimbabwe a dare oggi la dimensione di come l’Europa sia realmente intenzionata a cercare una nuova relazione con il continente africano. Nonostante la campagna politica e mediatica delle scorse settimane e il ‘ricatto’ del premier inglese Gordon Brown, che aveva chiesto di scegliere tra la sua presenza e quella di Mugabe, il presidente dello Zimbabwe oggi è nella capitale londinese, mentre Londra è rappresentata da un ambasciatore. D’altronde, come hanno sottolineato molti editorialisti africani, l’Europa non vuole solo mantenere il primato commerciale che detiene attualmente con il continente africano (215 miliardi di euro di scambi nel 2006, con in testa Italia e Francia), limitando la concorrenza dei paesi emergenti, ma vuole rafforzare il suo ruolo in vista di un mercato, quello africano, che nei prossimi decenni si appresta a crescere con forte rapidità per diventare, in potenza, il primo quanto ad espansione. Per questo uno dei temi centrali degli incontri informali di questo vertice è costituito dagli Accordi di partenariato economico (Ape/Epa) tra Unione Europea e paesi africani in scadenza a fine anno e sui quali il continente ha già avanzato più di una critica e un dubbio. Attraverso i cinque temi che verranno affrontati duranti il vertice e che sono già stati inclusi nella dichiarazioni finale – buon governo e diritti umani; pace e sicurezza; migrazione; energia e cambiamento climatico; commercio, infrastrutture e sviluppo – Africa e Unione Europea mirano quindi a costruire una nuova relazione nella quale, come si legge nell’editoriale del quotidiano congolese ‘L’Essor’, alle “sanzioni si sostituisca il dialogo”. (di Massimo Zaurrini)

“Che idea si è fatta l’Unione Europea dei dirigenti africani per permettersi di voler imporre all’Africa nel XXI secolo un partenariato così leonino?”: ruota intorno a questo interrogativo un articolo pubblicato da 'Icicemac', portale di informazione dell’Africa centrale, a firma dell’economista africana Patricia M. Nguegang Ngueba, sui cosiddetti "Accordi di partenariato economico" (Ape/Epa) tra la UE (Unione Europea) e i paesi Acp (Africa-Caraibi-Pacifico). Alla base degli Ape/Epa, ricorda l’autrice, c’è la necessità di rendere “compatibili” con le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto, World trade organization) le relazioni commerciali “non reciproche” definite dalle convenzioni di Yaoundé (1963-’69), Lomé (1975) e Cotonou (2000) con la concessione di un “privilegio” all’Acp in base al quale i prodotti di Africa, Caraibi e Pacifico "venivano tassati in modo inferiore rispetto a quelli concorrenti venuti dall’estero”. Ma, precisa l’economista, “studi e analisi su questi accordi dimostrano che i loro effetti sono stati alquanto mitigati. I paesi Acp non hanno approfittato di queste preferenze commerciali. Abbiamo piuttosto assistito alla loro emarginazione nel commercio mondiale, i prodotti esportati non si sono diversificati e sono rimasti prodotti di base, con poco margine di guadagno...Parallelamente la struttura delle esportazioni europee è evoluta verso la riduzione dei prodotti primari. In breve, il bilancio di questi accordi è ben lungi dall’essere entusiasmante”. Ricordando che la firma degli Ape “aprirà il mercato africano secondo i principi della concorrenza e della reciprocità dei prodotti europei” come farà l’Africa, si chiede la Ngueba, “a proteggere la sua economia, fragile e poco strutturata” tanto più che “i paesi africani, detti ‘sottosviluppati’, sono in maggioranza in fasi embrionali di industrializzazione?". Con l’afflusso dei prodotti europei “che in più sono scandalosamente sovvenzionati dai loro governi, i prodotti africani non potranno sostenere la concorrenza in termini di qualità e prezzi. Il risultato è che assisteremo alla morte certa delle nostre imprese”. L'economista africana prende in esame anche l’impatto degli Ape “sul bilancio pubblico e sulla fiscalità dei paesi africani. Se i dazi doganali costituiscono una parte importante delle risorse degli stati africani, peraltro deboli tenuto conto dei loro addebiti, "una loro diminuzione comporterà anche la diminuzione della spesa pubblica di questi paesi, gravando in particolare sulle politiche sociali. Per compensare queste perdite i governi saranno obbligati a tassare di più i cittadini accentuando così la pressione fiscale e di conseguenza la povertà delle masse”. Di fronte a una UE secondo la quale gli accordi saranno vantaggiosi per i paesi africani "e che - aggiunge la Ngueba - non esita a ricorrere al ricatto e a una strategia di divisione, avvicinando individualmente i paesi per concretizzare la firma di questi accordi...la storia presente e passata ci autorizza ad avere profondi dubbi di fronte a questa posizione ‘altruista’ marcata da un paternalismo offensivo per l’intelligenza degli africani”. Secondo l'economista africana gli Ape/Epa “obbediscono a un’opzione strategica della UE” per “garantire sbocchi ai suoi prodotti sul mercato africano poichè tutti gli studi dimostrano che entro due decenni l’Africa sarà il mercato più importante dopo l’Asia”.
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