“È il presidente – putativo - del mondo, capo mobilitatore di ‘al Qaida’ e santo patrono, senza vergogna, del terrorismo di stato”: questo è George W. Bush, almeno in un corposo e ironico editoriale di Tajudeen Abdulraheem intitolato “Dando il benvenuto nel continente a Bush” pubblicato dal quotidiano nigeriano ‘Daily Trust’, alla vigilia dell’arrivo del presidente americano in Africa, per un viaggio ufficiale che, dopo Benin e Tanzania, lo porta fino al 21 febbraio in Ghana, Rwanda e Liberia. La visita viene letta da una parte della stampa internazionale - soprattutto quella anglofona ma anche molti dei mezzi di informazioni di altre lingue - quasi esclusivamente in chiave “umanitaria”, sottolineando l’impegno contro la malaria (per cui Washington avrebbe concesso un prestito di quasi 700 milioni di dollari al governo tanzaniano), la sindrome da immunodeficienza acquisita (sida/aids) e, più genericamente, la povertà. In realtà, come scrive oggi il “New York Times”, nella migliore delle ipotesi la Casa Bianca “spera di utilizzare il viaggio in Africa per dare una lucidata all’immagine di Bush ‘conservatore compassionevole’, ricordando, non solo agli africani ma anche agli americani, che la sua amministrazione ha fatto anche altro oltre alla controversa guerra in Iraq”. L’inviato del quotidiano di New York sottolinea comunque che, nonostante la protesta di alcune migliaia di persone a Dar el Salaam, il presidente americano ha ricevuto al suo arrivo “un caloroso benvenuto”; l’agenzia di stampa inglese ‘Reuters’ riferisce addirittura di vere e proprie “scene di adulazione” nei confronti di un presidente definito “impopolare a casa e in gran parte del pianeta”. Un benvenuto che Abdulraheem, nel suo editoriale sul ‘Daily Trust’, ricollega soprattutto alla “generosa cultura dell’accoglienza africana” aggiungendo: “Vorrei avere il potere di fermare il presidente americano e farlo desistere dal suo viaggio. I problemi che vengono causati agli africani in occasione della visita di un presidente statunitense non sono pochi; i nostri inefficienti stati vanno in fibrillazione, così come le nostre egregie ‘first ladies’ e i loro mariti che si dannano per dimostrare la loro ospitalità…i paesi ‘scelti’ faranno di tutto per dargli un’accoglienza che non potrà dimenticare. Per loro, infatti, la visita di un presidente degli Stati Uniti è un incredibile colpo da un punto di vista politico e diplomatico e, soprattutto, dimostra ai loro ingrati cittadini quanto le loro guide siano importanti”. L’editorialista nigeriano elenca poi i morivi retrostanti la scelta delle tappe di questo viaggio: la Tanzania sarebbe, infatti, l’unico partner presentabile nel Corno d’Africa in un momento in cui il “Kenya è impegnato ad autoinfliggersi enormi ferite e l’Uganda è diventata meno di moda”; il Rwanda, storico alleato politico e militare di Washington e Londra in una zona d’influenza francofona, è “probabilmente il paese meglio governato e lo stato più efficiente del continente (ma non per questo il più democratico!)”; il Ghana “vive un prolungato cinquantesimo anniversario della sua indipendenza”; mentre in Liberia, un paese che secondo Abdulraheem “a volte sembra più uno stato mancante degli Stati Uniti che uno stato africano indipendente ”, Bush “incontrerà più neo-cons che nel suo stesso circolo”. Abdulraheem non riesce a trovare però nessuna spiegazione alla visita di Bush in Benin, un paese che, insieme a Mali, Burkina Faso a Ciad, dal 2003 è impegnato in sede internazionale - Organizzazione per il commercio mondiale (Omc/Wto)- in una battaglia contro Washington per i sussidi garantiti ai produttori nordamericani di cotone. La tappa in Benin, durata appena tre ore, la spiega però il ‘New York Times’: il breve scalo a Porto Novo (che comunque è valso a Bush il titolo di primo presidente americano in visita in questo piccolo paese dell’Africa occidentale) è servito a “fare il pieno all’Air Force One”. L’ironia dell’editorialista nigeriano non è l’unico contrappunto ai resoconti giornalistici sulla natura “umanitaria” del viaggio: l’agenzia di stampa francese ‘Afp’indica, “in filigrana” tra le voci dell’agenda di Bush, il petrolio, la ricerca di una sede per Africom - il nuovo comando militare americano per l’Africa che il continente ha già fatto capire chiaramente di non volere - e la competizione con Pechino. L’iperattività a livello commerciale, industriale e politico del gigante asiatico sta infatti scardinando in molti paesi africani vecchi meccanismi di sudditanza, ereditati dell’antico sistema coloniale o dagli assetti geo-politici della guerra fredda. È sempre l’Afp, poi, a ‘smontare’ alcune delle motivazioni “umanitarie” della visita di Bush, spiegando che l’Agoa (Africa growth and opportunity act), ovvero il sistema di privilegi commerciali garantito fino al 2015 da Washington ai paesi africani giudicati meritori e che permette l’ingresso negli Stati Uniti di alcuni prodotti commerciali senza alcun dazio, è in realtà inapplicato visto che il 90% delle importazioni americane dall’Africa è costituito dal petrolio. Un discorso simile anche per il Pepfar (President’s emergency plan for Aids Relief), il miliardario programma di aiuti contro la sindrome lanciato dallo stesso Bush cinque anni fa e ‘rinfrescato’ in questo viaggio ma che, come sottolinea l’agenzia di stampa internazionale Ips, è stato, con il passare degli anni, sempre più criticato dagli operatori del settore a causa delle priorità individuate per i finanziamenti. Tallel Bahoury, sulle colonne del principale portale economico tunisino, conclude: “Povera Africa! ieri teatro della guerra fredda tra est e ovest e oggi ancora al centro di una competizione internazionale…per le sue risorse”.
(a cura di Massimo Zaurrini)
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