mercoledì 13 febbraio 2008

Ancora sul calcio africano

(Foto tratta dal calendario 2005 della onlus UMUDUFU)


Sognando Eto’o
La carriera di calciatore in Africa? Un mestiere rischioso
scritto per PeaceReporter da Federico Frigerio

Quale giovane africano non sogna di poter raggiungere un giorno la notorietà di Samuel Eto’o, fuoriclasse camerunense del Barcellona? E chi non sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio pur di poter guadagnare quello che oggi intasca Didier Drogba, attaccante ivoriano del Chelsea finanziato dal paperone Abramovich? Certo non tutti gli atleti africani sono così fortunati: secondo uno studio dell’università svizzera di Neuchâtel, per un calciatore del continente nero fare carriera si rivela un affare complicato. Analizzando il periodo 2002-2006 e le carriere di 600 professionisti, Raffaele Poli, specialista svizzero delle migrazioni nel mondo del calcio, ha rilevato come solo il 13 percento di questi sia riuscito a migliorare le proprie condizioni economiche, mentre ben un terzo ha letteralmente appeso le scarpe al chiodo, ponendo fine alla propria carriera. Saldi africani. La questione diventa ancor più spinosa se si presta attenzione all’intero meccanismo che riguarda il reclutamento di calciatori provenienti dall’Africa: uno dei punti di snodo principali è il Belgio, nazione in cui i vincoli legali del mondo del calcio sono molto sottili e dove quindi risulta più facile “importare” giovani promesse. Gli agenti trovano in Africa un mercato pieno di manodopera: la garanzia di provini in prestigiosi club europei attira atleti (e le loro disperate famiglie) come mosche. Il calcio diventa spesso lo specchietto per le allodole per organizzare vere e proprie tratte: gli aspiranti calciatori possono essere trasferiti clandestinamente in altre nazioni, costretti a lavorare sotto la stretta vigilanza di sistemi mafiosi. Il desolante immobilismo di molti stati africani non può che favorire tali meccanismi di reclutamento: le famiglie dei giovani considerano la possibilità di un provino in un club europeo come una benedizione, incoraggiano i loro figli e sono disposti a indebitarsi, confidando di poter restituire il tutto una volta che il loro figlio guadagnerà quanto Eto’o. Un semplice visto da turisti è il biglietto da visita con cui questi giovani africani si presentano in Europa. Inizia la serie dei provini e il tempo per poter lasciare una traccia di sé varia dai tre ai sei mesi. Chi fa buona impressione ottiene l’agognato contratto, ma pratica diffusa è quella di far firmare ai giovani atleti due copie: una perfettamente regolare, da consegnare alla federazione calcistica, l’altra, scritta a mano, dove sono indicate le vere condizioni e il reale (e naturalmente più basso) salario. L’Ajax, prestigioso club olandese, è stato multato per 10 mila euro per aver pagato alcuni giocatori africani al di sotto del minimo salariale. Nel caso contrario, una volta terminati i sei mesi molti atleti sono abbandonati a loro stessi.
Uno su mille. I giovani fenomeni africani sono spesso accompagnati nelle ambasciate per far lievitare la loro età, aggirando con piccole bustarelle i regolamenti. Louis Clément Ngwat-Mahop, attaccante che la scorsa stagione militava nel Bayern Monaco, fermato per normali controlli, è risultato in possesso di un passaporto appartenente ad una cittadina francese. Raffaele Poli sintetizza così i passaggi intermedi che permettono agli agenti di trarre profitti sempre più elevati: “Il calciatore africano è una materia prima che deve essere esportata per poter essere rivenduta a un prezzo maggiore. Per far lievitare il prezzo li si fa prima giocare in campionati di serie minori (Romania, Albania), poi di secondo grado (Svizzera, Belgio, Paesi Bassi) per rivenderli infine ai club professionisti”. Jean-Claude Mbvoumin, ex giocatore della nazionale camerunense, ha fondato l’associazione Culture Foot Solidarie per aiutare i giovani calciatori africani che sono stati vittime di imbrogli o di soprusi. Secondo i dati raccolti dalla sua associazione si tratterebbe del 95 per cento dei casi. Gli atleti “scaricati” non possono nemmeno concepire l’idea di tornare nella propria nazione. Il meccanismo psicologico dell’insuccesso spinge chi non ce l’ha fatta a isolarsi, a vivere nell’anonimato: tornare a casa a mani vuote sarebbe, oltre che una vergogna insopportabile, pericoloso per lo stesso atleta. Mbvoumin non vorrebbe più sentire frasi di questo genere: “Se torno a casa i miei genitori mi uccideranno perché non riporterò loro ricchezza e grandi macchine”.
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