Per accontentare chi ci chiede aggiornamenti fotografici più frequenti, ecco le foto della nostra prima gita mozambicana: Rio Savane, ridente località di villeggiatura a un'ora di macchina (Jeep) da Beira.
sabato 27 ottobre 2007
giovedì 25 ottobre 2007
Still alive!!
Voglio tranquillizzare le MIGLIAIA di lettori in attesa degli aggiornamenti mozambicani: siamo ancora vivi! Beh, in reltà io qualche mega-squaraus me lo sono fatto, ma a parte questo...
Il problema è che sono stra-pieno al lavoro: mi si sono accumulate un sacco di cose e le prossime 3 settimane saranno DE FUEGO!!! Comunque presto ritornerò a postare!
Il problema è che sono stra-pieno al lavoro: mi si sono accumulate un sacco di cose e le prossime 3 settimane saranno DE FUEGO!!! Comunque presto ritornerò a postare!
venerdì 12 ottobre 2007
domenica 7 ottobre 2007
Commenti!
Il Blog inizia a piacermi di brutto!! Soprattutto perché grazie ai commenti di chi legge i Post, diventa qualcosa di interattivo, uno scambio di opinioni e di esperienze. In questo Post ho trascritto i commenti al Testo di Mia Couto “Os sete sapatos sujos”, che altrimenti non sarebbero stati letti! Il testo è fedele, ho solo corretto i refusi.
1. “cosa ci separa dal futuro che tutti vogliamo? un nuovo atteggiamento. Se non cambieremo l’atteggiamento non conquisteremo una condizione migliore”.
Lettura emozionante. Mi chiedo, a partire da questo ragionamento, cosa mai ci sia di diverso tra gli uomini di qualsiasi meridiano o parallelo. Non soffriamo noi delle medesime malattie? INTONSES (sono riuscito a usarlo anche stavolta!)
2. davvero bello Quando sono stato una settimana (l'unica per ora nella mi vita) in Cameroon all'università di Douala per una conferenza, ho visto coi miei occhi molte delle scarpe elencate qui. Mi aspettavo povertà, ma soprattutto una qualche fierezza da parte loro, pur nella povertà. In verità non l'ho vista questa fierezza.
Almeno nelle alte sfere.
I professoroni che organizzavano tendevano a fare i baroni come da noi in Italia, mostrando il loro potere su poveri studenti sottomessi. "Cercano di imitarci", questa la sensazione che non mi mollava, ogni giorno, ogni talk, ogni visita che facevamo. Powerpoint ne ho visti a bizzeffe, presentazioni poverissime, fatte da negretti istruiti ad arte, arte povera, il tutto in un quadro che scimmiottava il modo di fare conferenze nell'Hilton di New York.
Non eravamo a New York, ma a Douala, in un posto che cosi non ce n'e' altrove nel pianeta. Perché non riuscivano a valorizzare quello che avevano? Perché la loro scienza imitava la nostra? Con risultati risibili ovviamente. Cosa gliene frega ad un africano della teoria della relatività generale?
Questo era il peggiore, il presidente della conferenza, che si faceva bello nel suo seminario incomprensibile di calcoli fatti 10 anni prima su un piccolo corollario a non so quale dettaglio della relatività.
E nel discorso di apertura si faceva reggere il microfono, mentre teneva con 2 mani il foglio da cui leggeva malissimo, da un povero studentello atrofizzato (due ore di discorso, e il tipo sotto al palco col braccio sollevato).
E le nanotecnologie che diavolo ci fanno li? E i tipi che studiano la teoria elettromagnetica per togliere granelli di polvere dai circuiti elettronici usando il laser?
Insomma, va cosi per quello che ho visto: sono poveri, quindi possono solo studiare, carta e penna, ma zero esperimenti all'occidentale con fondi milionari. Allora fanno collaborazioni con i "grandi" scienziati ricchi e bianchi oltresponda i quali gli mollano i calcoli noiosi, di lavori per loro, gli africani, assolutamente inutili. Gli africani ci guadagnano stima e pubblicazioni, e forse un buon CV da mandare all'estero, per scappare, o diventare capi di dipartimento, un nuovo nero colonialista, un capò.
Ma per fortuna ho visto anche cose belle, studi sulla zanzara della malaria, sulle malattie dei bananeti, sulla desertificazione, sull'energia solare...
Ecco, e presi parola timidamente (ma come sono contento di aver vinto la paura iniziale, me ne sarei pentito a lungo, e non avrei passato tutto sto tempo oggi a scrivere..) nel "workshop finale" dedicato al futuro sviluppo in africa, questo dovete fare, concentrarvi su voi stessi, i vostri problemi, i vostri bisogni, non quelli che vi esportiamo noi, e fare ricerca scientifica su quelli, i vostri. Non le nanotecnologie! Che diavolo ve ne fate! E perché dovete togliere la polvere dai NOSTRI circuiti elettrici? Mai potrete competere con gli americani su quello, resterete sempre dietro, sempre ad inseguire. Concentratevi sulle zanzare, sulle banane, sull'AIDS, sul deserto e sul sole, che dai noi bianchi schifosi nessuno lo fa! E se davvero qualcuno lo fa, comunque non e' la priorità, perché non fa parte dei bisogni che abbiamo per ora (al momento! ma noi funzioniamo cosi). Insomma, cambiate strada, non veniteci dietro! Inventate qualcosa di nuovo, seguite le vostre strade , che ce n'è di roba. Un ottimo esempio: un grande prof. negrissimo e fiero (lui sì e ne aveva ben ragione) che ci mostrò come dei pezzi di roba dalla spazzatura (e' vero, ce lo mostrò al momento!) potevano essere messi insieme per fare un laser ad azoto! Luce blu per noi poveri bianchi dai laboratori milionari! Prezzo totale 5 dollari, un pezzo di una TV rotta, due barrette di alluminio, un foglio di plastica per le trasparenze nei proiettori -prima di powerpoint- e un generatore da non so dove.
Non le nanotecnologie cazzo! E mentre parlavo avevo di fronte l'americano nano-tecnologo che mi guardava cupo. Quando conclusi nel mio inglese tremante fu il finimondo. La francesina co-organizzatrice si sbracciò dicendo che non era giusto e che la ricerca fondamentale in scienza è davvero importante et oui et non, il nanotecnologo disse qualcosa in americano che sembrava duro , ma tanto nessuno capì col cazzo di accento che aveva (tra l'altro: gli abbiamo rubato la lingua a quelli li, oramai noi si parla la nostra, con un africano in inglese ci capiamo molto meglio che con un texano! e se il texano si mette nella discussione, non capisce una sega! li stiamo tagliando fuori, ahah).
insomma un putiferio....
già ma solo i VIP presero parola contro di me. Veramente mi uccisero. Io mi feci piccolo piccolo con la paura di averla fatta grossa. Ero studentello e mi tremava la voce. Diciamo che ora non mi invitano più...
ma dopo, i piccoli, studenti e ricercatorini vennero e mi dissero che ero stato coraggioso, che tutti pensavano a quello ma nessuno osava...
l'orgoglio alle stelle, l'africa nel cuore. Perche' i VIP sono pochi, lì come ovunque. Cavolo che esperienza, l'africa insegna, e si che ne ha di cose da insegnare. Quando se ne rendono conto saranno cavoli amari per i nostri di VIP allora. Speriamo.
1. “cosa ci separa dal futuro che tutti vogliamo? un nuovo atteggiamento. Se non cambieremo l’atteggiamento non conquisteremo una condizione migliore”.
Lettura emozionante. Mi chiedo, a partire da questo ragionamento, cosa mai ci sia di diverso tra gli uomini di qualsiasi meridiano o parallelo. Non soffriamo noi delle medesime malattie? INTONSES (sono riuscito a usarlo anche stavolta!)
2. davvero bello Quando sono stato una settimana (l'unica per ora nella mi vita) in Cameroon all'università di Douala per una conferenza, ho visto coi miei occhi molte delle scarpe elencate qui. Mi aspettavo povertà, ma soprattutto una qualche fierezza da parte loro, pur nella povertà. In verità non l'ho vista questa fierezza.
Almeno nelle alte sfere.
I professoroni che organizzavano tendevano a fare i baroni come da noi in Italia, mostrando il loro potere su poveri studenti sottomessi. "Cercano di imitarci", questa la sensazione che non mi mollava, ogni giorno, ogni talk, ogni visita che facevamo. Powerpoint ne ho visti a bizzeffe, presentazioni poverissime, fatte da negretti istruiti ad arte, arte povera, il tutto in un quadro che scimmiottava il modo di fare conferenze nell'Hilton di New York.
Non eravamo a New York, ma a Douala, in un posto che cosi non ce n'e' altrove nel pianeta. Perché non riuscivano a valorizzare quello che avevano? Perché la loro scienza imitava la nostra? Con risultati risibili ovviamente. Cosa gliene frega ad un africano della teoria della relatività generale?
Questo era il peggiore, il presidente della conferenza, che si faceva bello nel suo seminario incomprensibile di calcoli fatti 10 anni prima su un piccolo corollario a non so quale dettaglio della relatività.
E nel discorso di apertura si faceva reggere il microfono, mentre teneva con 2 mani il foglio da cui leggeva malissimo, da un povero studentello atrofizzato (due ore di discorso, e il tipo sotto al palco col braccio sollevato).
E le nanotecnologie che diavolo ci fanno li? E i tipi che studiano la teoria elettromagnetica per togliere granelli di polvere dai circuiti elettronici usando il laser?
Insomma, va cosi per quello che ho visto: sono poveri, quindi possono solo studiare, carta e penna, ma zero esperimenti all'occidentale con fondi milionari. Allora fanno collaborazioni con i "grandi" scienziati ricchi e bianchi oltresponda i quali gli mollano i calcoli noiosi, di lavori per loro, gli africani, assolutamente inutili. Gli africani ci guadagnano stima e pubblicazioni, e forse un buon CV da mandare all'estero, per scappare, o diventare capi di dipartimento, un nuovo nero colonialista, un capò.
Ma per fortuna ho visto anche cose belle, studi sulla zanzara della malaria, sulle malattie dei bananeti, sulla desertificazione, sull'energia solare...
Ecco, e presi parola timidamente (ma come sono contento di aver vinto la paura iniziale, me ne sarei pentito a lungo, e non avrei passato tutto sto tempo oggi a scrivere..) nel "workshop finale" dedicato al futuro sviluppo in africa, questo dovete fare, concentrarvi su voi stessi, i vostri problemi, i vostri bisogni, non quelli che vi esportiamo noi, e fare ricerca scientifica su quelli, i vostri. Non le nanotecnologie! Che diavolo ve ne fate! E perché dovete togliere la polvere dai NOSTRI circuiti elettrici? Mai potrete competere con gli americani su quello, resterete sempre dietro, sempre ad inseguire. Concentratevi sulle zanzare, sulle banane, sull'AIDS, sul deserto e sul sole, che dai noi bianchi schifosi nessuno lo fa! E se davvero qualcuno lo fa, comunque non e' la priorità, perché non fa parte dei bisogni che abbiamo per ora (al momento! ma noi funzioniamo cosi). Insomma, cambiate strada, non veniteci dietro! Inventate qualcosa di nuovo, seguite le vostre strade , che ce n'è di roba. Un ottimo esempio: un grande prof. negrissimo e fiero (lui sì e ne aveva ben ragione) che ci mostrò come dei pezzi di roba dalla spazzatura (e' vero, ce lo mostrò al momento!) potevano essere messi insieme per fare un laser ad azoto! Luce blu per noi poveri bianchi dai laboratori milionari! Prezzo totale 5 dollari, un pezzo di una TV rotta, due barrette di alluminio, un foglio di plastica per le trasparenze nei proiettori -prima di powerpoint- e un generatore da non so dove.
Non le nanotecnologie cazzo! E mentre parlavo avevo di fronte l'americano nano-tecnologo che mi guardava cupo. Quando conclusi nel mio inglese tremante fu il finimondo. La francesina co-organizzatrice si sbracciò dicendo che non era giusto e che la ricerca fondamentale in scienza è davvero importante et oui et non, il nanotecnologo disse qualcosa in americano che sembrava duro , ma tanto nessuno capì col cazzo di accento che aveva (tra l'altro: gli abbiamo rubato la lingua a quelli li, oramai noi si parla la nostra, con un africano in inglese ci capiamo molto meglio che con un texano! e se il texano si mette nella discussione, non capisce una sega! li stiamo tagliando fuori, ahah).
insomma un putiferio....
già ma solo i VIP presero parola contro di me. Veramente mi uccisero. Io mi feci piccolo piccolo con la paura di averla fatta grossa. Ero studentello e mi tremava la voce. Diciamo che ora non mi invitano più...
ma dopo, i piccoli, studenti e ricercatorini vennero e mi dissero che ero stato coraggioso, che tutti pensavano a quello ma nessuno osava...
l'orgoglio alle stelle, l'africa nel cuore. Perche' i VIP sono pochi, lì come ovunque. Cavolo che esperienza, l'africa insegna, e si che ne ha di cose da insegnare. Quando se ne rendono conto saranno cavoli amari per i nostri di VIP allora. Speriamo.
sabato 6 ottobre 2007
06.10.07
...giorno di funerali. Oggi ho già visto due cortei funebri, e la giornata non è ancora finita...un carro pieno di gente davanti; reggono una croce di legno, le donne si coprono il volto, piangono; e dietro una fila di macchine, camion, pullman, moto, biciclette, cariche di amici e famigliari. Se il defunto è un V.I.P. ci sono anche soldati in divisa. Da quando sono qui ne ho già visti un po', quasi tutti i giorni; il primo l'ho visto appena arrivato a Beira, nel breve tragitto dall'aeroporto fino a casa.
Di sicuro tra questi ci sono quelli che ho visto morire in ospedale; nel Reparto di Medicina Interna c'è una mortalità elevatissima: vengono ricoverati in condizioni pietose, quasi tutti con AIDS in fase terminale; ogni giorno qualcuno viene portato via coperto da un lenzuolo; non mi aspettavo una situazione diversa, sapevo dove sarei andato a lavorare, però quando iniziano a morirti tra le mani senza poter fare nulla, sia per lo stadio avanzato della malattia che per la mancanza di strumenti e materiale, ti fai delle domande, e quasi sempre non trovi le risposte...
...la cosa più triste è che le persone muoiono in queste stanze affollate, davanti agli altri pazienti che iniziano a piangere, perchè sanno che da un momento all'altro potrebbe accadere a loro. E' difficile aiutare gli studenti di medicina ad imparare cosa si dovrebbe fare "in teoria", e poi non poterlo minimamente fare "nella pratica": è frustrante anche per loro, anche se hanno una carica e un'energia incredibili!
Al di là dei commenti o dei giudizi, non scrivo queste cose per cercare la "lacrima facile" o per "spettacolarizzare" il lutto; scrivo questo cose per raccontare la realtà che vedo, e per ricordarmi e ricordare che ci sono luoghi in cui le parole "diritto alla salute" sono prive di significato.
Di sicuro tra questi ci sono quelli che ho visto morire in ospedale; nel Reparto di Medicina Interna c'è una mortalità elevatissima: vengono ricoverati in condizioni pietose, quasi tutti con AIDS in fase terminale; ogni giorno qualcuno viene portato via coperto da un lenzuolo; non mi aspettavo una situazione diversa, sapevo dove sarei andato a lavorare, però quando iniziano a morirti tra le mani senza poter fare nulla, sia per lo stadio avanzato della malattia che per la mancanza di strumenti e materiale, ti fai delle domande, e quasi sempre non trovi le risposte...
...la cosa più triste è che le persone muoiono in queste stanze affollate, davanti agli altri pazienti che iniziano a piangere, perchè sanno che da un momento all'altro potrebbe accadere a loro. E' difficile aiutare gli studenti di medicina ad imparare cosa si dovrebbe fare "in teoria", e poi non poterlo minimamente fare "nella pratica": è frustrante anche per loro, anche se hanno una carica e un'energia incredibili!
Al di là dei commenti o dei giudizi, non scrivo queste cose per cercare la "lacrima facile" o per "spettacolarizzare" il lutto; scrivo questo cose per raccontare la realtà che vedo, e per ricordarmi e ricordare che ci sono luoghi in cui le parole "diritto alla salute" sono prive di significato.
2003. Lettera di Mia Couto a George W. Bush
Presidente Bush, sono uno scrittore di una nazione povera, un paese che è già stato incluso nella vostra lista nera. Milioni di mozambicani ignorano che male vi abbiano fatto. Siamo piccoli e poveri: che minaccia possiamo rappresentare? La nostra arma di distruzione di massa, in fondo, è rivolta verso di noi: è la fame, la miseria. Ebbene io, povero scrittore di un povero paese, ho fatto un sogno. Come Martin Luther King una volta sognò che l'America era la nazione di tutti gli americani. Ho sognato che non ero un uomo, ma un Paese. Sì, un Paese che non riusciva a dormire perché viveva spaventato da cose terribili. Quel timore mi ha portato a esprimere una richiesta che, nel sogno, aveva a che vedere con Lei, caro Presidente. Esigevo che gli Stati Uniti d'America procedessero con l'eliminazione delle loro armi di distruzione di massa. Esigevo inoltre che ispettori delle Nazioni Unite fossero inviati nel vostro Paese. I fatti che alimentavano il mio sospetto purtroppo erano reali, e non prodotti dal sogno. La lista è cosi lunga che ne sceglierò soltanto qualcuno. Eccoli.
- Gli Stati Uniti sono l'unica nazione al mondo che ha lanciato bombe atomiche su altre nazioni; il suo Paese è stato l'unico ad essere condannato per "uso illegittimo della forza" dal Tribunale Internazionale di Giustizia;
- Le forze americane hanno istruito e armato fondamentalisti islamici fra i più estremisti (compreso il terrorista Bin Laden) col pretesto di rovesciare gli invasori russi in Afghanistan; il regime di Saddam Hussein è stato appoggiato dagli Stati Uniti mentre metteva in atto le peggiori atrocità contro iracheni (compreso il massacro dei curdi con i gas);
- Come molti altri leader legittimi, l'africano Patrice Lumumba venne assassinato con l'aiuto della CIA (fu arrestato e torturato, poi gli spararono in testa e il suo corpo venne disciolto nell'acido cloridrico);
- Come tanti altri fantocci, Mobutu Seseseko venne posto al potere da vostri agenti, e concesse speciali servizi allo spionaggio americano; l'invasione di Timor Est da parte dei militari indonesiani ha ottenuto l'appoggio degli Stati Uniti; nell'agosto del 1998, le forze aeree degli Stati Uniti hanno bombardato in Sudan una fabbrica di medicinali, chiamata Al-Shifa. Un errore? No, si trattava di una rappresaglia in seguito agli attentati di Nairobi e Dar-es-Saalam.
- Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, gli Stati Uniti hanno bombardato: la Cina (1945-46), la Corea e la Cina (1950-53), il Guatemala (1954), l'Indonesia (1958), Cuba (1959-1961), il Guatemala (1960), il Congo (1964), il Peru (1965), il Laos (1961-1973 ), il Vietnam (1961-1973), la Cambogia (1969-1970), il Guatemala (1967-1973), Grenada (1983), il Libano (1983-1984), la Libia (1986), il Salvador (1980), il Nicaragua (1980),l'Iran (1987), Panama (1989),l'Iraq (1990-2001), il Kuwait (1991), la Somalia (1993), la Bosnia (1994-95), il Sudan (1998), I'Afganistan (1998), la Jugoslavia (1999). S
vegliandomi, sono passato dall'incubo del sonno a quello della realtà. La guerra che Lei, Signor Presidente, si è ostinato a voler intraprendere, ci potrà liberare da un dittatore. Ma diventeremo tutti più poveri. Avremo meno speranza in un futuro governato dalla ragione e dalla morale. Avremo meno fiducia nella forza regolatrice delle Nazioni Unite. Resteremo, alla fine, più soli e abbandonati. Signor Presidente, l'Iraq non è Saddam. Sono 22 milioni di madri e figli e di uomini che lavorano e sognano come fanno i comuni nordamericani (...) Alla fine, ci libereremo di Saddam. Ma continueremo ad essere prigionieri della logica della guerra e dell'arroganza. Non voglio che i miei figli (né i suoi) vivano dominati dal fantasma della paura. E che pensino che, per vivere tranquilli, abbiano bisogno di costruirsi una fortezza. E che saranno solo al sicuro quando dovranno spendere fortune in armamenti. Il vescovo americano Monsignor Robert Bowan, le ha scritto, alla fine dell'anno scorso, una lettera intitolata: «Perché il mondo odia gli Stati Uniti?». Bowman, vescovo delta chiesa cattolica della Florida, ha combattuto in Vietnam. Sa cos'è la guerra, e ha scritto: "Siamo obbiettivo dei terroristi perché, nella maggior parte del mondo, il nostro governo ha difeso la dittatura, la schiavitù e lo sfruttamento degli esseri umani. Siamo obbiettivo dei terroristi perché siamo odiati. E siamo odiati perché il nostro governo commette cose odiose". La maggior minaccia che incombe sull'America non sono gli armamenti degli altri ma l'universo di menzogne che si è creato intorno ai vostri cittadini. Il pericolo non è il regime di Saddam, né nessun altro regime. Bensì il sentimento di superiorità che sembra animare il suo governo. Il suo nemico principale non è fuori. E' dentro agli Stati Uniti. Io vorrei poter festeggiare la caduta di Saddam Hussein. E festeggiare con tutti gli americani. Ma senza ipocrisia, senza argomenti ad uso di minorati mentali. Perché noi, caro Presidente Bush, noi, i popoli dei paesi piccoli, abbiamo un'arma di costruzione di massa: la capacità di pensare.
Mia Couto
- Gli Stati Uniti sono l'unica nazione al mondo che ha lanciato bombe atomiche su altre nazioni; il suo Paese è stato l'unico ad essere condannato per "uso illegittimo della forza" dal Tribunale Internazionale di Giustizia;
- Le forze americane hanno istruito e armato fondamentalisti islamici fra i più estremisti (compreso il terrorista Bin Laden) col pretesto di rovesciare gli invasori russi in Afghanistan; il regime di Saddam Hussein è stato appoggiato dagli Stati Uniti mentre metteva in atto le peggiori atrocità contro iracheni (compreso il massacro dei curdi con i gas);
- Come molti altri leader legittimi, l'africano Patrice Lumumba venne assassinato con l'aiuto della CIA (fu arrestato e torturato, poi gli spararono in testa e il suo corpo venne disciolto nell'acido cloridrico);
- Come tanti altri fantocci, Mobutu Seseseko venne posto al potere da vostri agenti, e concesse speciali servizi allo spionaggio americano; l'invasione di Timor Est da parte dei militari indonesiani ha ottenuto l'appoggio degli Stati Uniti; nell'agosto del 1998, le forze aeree degli Stati Uniti hanno bombardato in Sudan una fabbrica di medicinali, chiamata Al-Shifa. Un errore? No, si trattava di una rappresaglia in seguito agli attentati di Nairobi e Dar-es-Saalam.
- Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, gli Stati Uniti hanno bombardato: la Cina (1945-46), la Corea e la Cina (1950-53), il Guatemala (1954), l'Indonesia (1958), Cuba (1959-1961), il Guatemala (1960), il Congo (1964), il Peru (1965), il Laos (1961-1973 ), il Vietnam (1961-1973), la Cambogia (1969-1970), il Guatemala (1967-1973), Grenada (1983), il Libano (1983-1984), la Libia (1986), il Salvador (1980), il Nicaragua (1980),l'Iran (1987), Panama (1989),l'Iraq (1990-2001), il Kuwait (1991), la Somalia (1993), la Bosnia (1994-95), il Sudan (1998), I'Afganistan (1998), la Jugoslavia (1999). S
vegliandomi, sono passato dall'incubo del sonno a quello della realtà. La guerra che Lei, Signor Presidente, si è ostinato a voler intraprendere, ci potrà liberare da un dittatore. Ma diventeremo tutti più poveri. Avremo meno speranza in un futuro governato dalla ragione e dalla morale. Avremo meno fiducia nella forza regolatrice delle Nazioni Unite. Resteremo, alla fine, più soli e abbandonati. Signor Presidente, l'Iraq non è Saddam. Sono 22 milioni di madri e figli e di uomini che lavorano e sognano come fanno i comuni nordamericani (...) Alla fine, ci libereremo di Saddam. Ma continueremo ad essere prigionieri della logica della guerra e dell'arroganza. Non voglio che i miei figli (né i suoi) vivano dominati dal fantasma della paura. E che pensino che, per vivere tranquilli, abbiano bisogno di costruirsi una fortezza. E che saranno solo al sicuro quando dovranno spendere fortune in armamenti. Il vescovo americano Monsignor Robert Bowan, le ha scritto, alla fine dell'anno scorso, una lettera intitolata: «Perché il mondo odia gli Stati Uniti?». Bowman, vescovo delta chiesa cattolica della Florida, ha combattuto in Vietnam. Sa cos'è la guerra, e ha scritto: "Siamo obbiettivo dei terroristi perché, nella maggior parte del mondo, il nostro governo ha difeso la dittatura, la schiavitù e lo sfruttamento degli esseri umani. Siamo obbiettivo dei terroristi perché siamo odiati. E siamo odiati perché il nostro governo commette cose odiose". La maggior minaccia che incombe sull'America non sono gli armamenti degli altri ma l'universo di menzogne che si è creato intorno ai vostri cittadini. Il pericolo non è il regime di Saddam, né nessun altro regime. Bensì il sentimento di superiorità che sembra animare il suo governo. Il suo nemico principale non è fuori. E' dentro agli Stati Uniti. Io vorrei poter festeggiare la caduta di Saddam Hussein. E festeggiare con tutti gli americani. Ma senza ipocrisia, senza argomenti ad uso di minorati mentali. Perché noi, caro Presidente Bush, noi, i popoli dei paesi piccoli, abbiamo un'arma di costruzione di massa: la capacità di pensare.
Mia Couto
mercoledì 3 ottobre 2007
03.10.07
La bici è un bel modo di girare per Beira...riesci meglio ad osservare la reltà che ti circonda, quasi fosse a rallentatore; e ti soffermi su qualcosa che per un motivo o per l'altro ti colpisce; delle istantanee che salvi e archivi; flash di vita quotidiana. Oggi ho "registrato" 2 di questi flash.
Ho incrociato un camion che portava della gente a lavorare fuori città: pensavo che stesse per esplodere da tante persone erano accalcate sul rimorchio, stipate all'inverosimile e appese da ogni parte, arrivavano quasi fino a terra; ma la cosa che mi ha colpito di più era sentire le voci delle donne intonare un belissimo canto che si faceva strada in questa calca umana.
Vicino ad un campo stanno costruendo una recinzione in muratura; una fila infinita di uomini uno accanto all'altro, ognuno con il proprio mattone forato da appoggiare, mooooolto lentamente, sul muro in costruzione, mentre altrettanti dall'altra parte stendono lo strato di cemento, e in 3 o 4 controllano il lavoro o prendono le misure: proprio come un tipico cantiere del bergamasco!
Qui il tempo scorre in modo differente; ti accorgi subito, appena arrivi, dei ritmi diversi. Gli stessi movimenti sono più lenti. E ti devi abituare, se non vuoi impazzire. Se ti guardi attorno vedi che sono solo i Muzungu che si affrettano, sempre di corsa, sempre con l'orologio davanti agli occhi, con l'ansia del "fare" che ci contraddistignue. E scopri di essere l'unico ad essere in orario, o addirittura in anticipo, e allora pensi che forse è meglio adeguarsi un po' se non vuoi rimanere sempre ad aspettare come un pirla! Spero di perdere presto i ritmi frenetici da milanese, che qui ti impediscono di cogliere fino in fondo le sfumature di una realtà che , in due anni, spero di osservare, sentire, odorare (capire?).
Os sete sapatos sujos
Ho letto questo testo scritto da uno scrittore mozambicano, Mia Couto. Mi è sembrato interessante, e anche se è un po' lungo ho deciso di pubblicarlo sul Blog. Vi consiglio di copiarlo su Word per ingrandire il testo e leggerlo senza perdere la vista. E' la mia prima traduzione dal portoghese e quindi spero che non ci siano troppi strafalcioni linguistici.
Buona lettura
OS SETE SAPATOS SUJOS (Le sette scarpe sporche) dello scrittore mozambicano MIA COUTO
Tutti i giorni ci confrontiamo con un appello per combattere la povertà. E tutti noi, in modo generoso e patriottico, desideriamo partecipare a questa battaglia. Esistono, però, varie forme di povertà. E c’è, fra tutte, una che scappa alle statistiche e agli indicatori numerici: è la mancanza di riflessione sopra noi stessi. Parlo della difficoltà di pensare a noi come soggetti storici, come punto di partenza e come obiettivo di un sogno… C’è adesso un annuncio nelle nostre stazioni radio in cui qualcuno domanda alla vicina: mi dica signora, cosa succede a casa sua? Suo figlio è capo-gruppo, le sue figlie si sono accasate bene, suo marito è stato nominato direttore, mi dica, qual è il segreto? E la signora risponde: in casa nostra mangiamo riso di marca XXX Sarebbe bello se la nostra vita cambiasse mangiando un prodotto alimentare. Già mi vedo il nostro Magnifico Rettore distribuire il magico riso e aprire in Università le porte al successo e alla felicità. Ma essere felici è, sfortunatamente, molto più faticoso. Nel giorno in cui io compì 11 anni, il 5 luglio 1966, il Presidente Kenneth Kaunda annunciò ai microfoni di Radio Lusaka che uno dei grandi pilastri della felicità del suo popolo era stato costruito. Non parlava di nessuna marca di riso. Ringraziò il popolo dello Zambia per il coinvolgimento nella costruzione della prima Università del Paese. Un mese prima, Kaunda aveva lanciato un appello perché ogni zambiano contribuisse per costruire l’Università. La risposta fu commovente: decina di migliaia di persone risposero all’appello. I contadini donarono miglio, i pescatori offrirono pesce, i funzionari diedero denaro. Un Paese di gente analfabeta si unì per creare quello che immaginavano essere una pagina nuova nella loro storia. Il messaggio dei contadini nella inaugurazione diceva: noi abbiamo dato perché crediamo che, facendo ciò, i nostri nipoti smetteranno di soffrire la fame. Quaranta anni dopo, i nipoti degli agricoltori zambiani continuano a soffrire la fame. In verità, gli zambiani vivono oggi peggio di allora. Negli anni ‘60, lo Zambia beneficiava di un prodotto interno lordo paragonabile a quello di Singapore e della Malesia. Oggi, non si può nemmeno paragonare con i Paesi dell’Asia. Alcune Nazioni africane possono spiegare la permanenza della miseria con la presenza di guerre. Ma lo Zambia non ha mai avuto guerre. Alcuni Paesi possono argomentare di non possedere risorse. Tuttavia lo Zambia è una Nazione con molte risorse minerarie. Di chi è la colpa di queste aspettative frustrate? Chi ha sbagliato? L’Università? La Società? Il Mondo intero? Perché Singapore e la Malesia progredirono e lo Zambia regredì? Ho parlato dello Zambia come un Paese africano a caso. Sfortunatamente non mancano altri esempi. Il nostro continente è pieno di casi identici, di strade sbagliate, di speranze frustrate. Ormai è generalizzato il pensiero che è impossibile per noi cambiare il destino del nostro continente. Vale la pena domandarci: cosa sta succedendo? Cosa bisogna cambiare dentro e fuori l’Africa? Queste domande sono serie. Non possiamo eludere le risposte, né continuare a gettare sabbia per nascondere le responsabilità. Non possiamo accettare che siano solo preoccupazioni dei Governi. Fortunatamente, stiamo vivendo in Mozambico una situazione particolare, con differenze evidenti. Dobbiamo riconoscere ed essere orgogliosi del fatto che il nostro percorso è stato ben diverso. Dal 1957, solo sei su 153 Capi di Stato africani rinunciarono volontariamente al potere. Joaquim Chissano è il settimo di questi presidenti. Sembra un dettaglio ma è ben indicativo del fatto che il processo mozambicano seguì logiche diverse. Nonostante ciò, la conquista della libertà e della democrazia di cui oggi usufruiamo saranno definitive quando si convertiranno in cultura per ognuno di noi. E questo è ancora un cammino di generazioni. Nel frattempo, pesano sopra il Mozambico minacce che sono comuni a tutto il continente. La fame, la miseria, le malattie, tutto quello che dividiamo con il resto dell’Africa. I numeri sono spaventosi: 90 milioni di africani moriranno di AIDS nei prossimi 20 anni. Per questo tragico numero, il Mozambico contribuirà con circa 3 milioni di morti. La maggiore parte di questi condannati sono giovani e rappresentano esattamente la valanga con cui potremmo rimuovere il peso della miseria. Intendo dire, l’Africa non solo sta perdendo il suo presente: sta perdendo il terreno dove potrebbe nascere un nuovo domani. Avere un futuro costa molto denaro. Ma è molto più costoso avere solo un passato. Prima dell’indipendenza, per i contadini zambiani non c’era futuro. Oggi l’unico tempo che esiste per loro è il futuro degli altri. Le sfide sono maggiori della speranza? Ma noi non possiamo che essere ottimisti e fare quello che i Brasiliani chiamano “alzarsi, spazzare la polvere cercare di risalire”. Il pessimismo è un lusso per i ricchi. La domanda cruciale è questa: cosa ci separa dal futuro che tutti vogliamo? Alcuni credono che quello che manca sono più servizi, più scuole, più ospedali. Altri credono che abbiamo bisogno di più investitori, più progetti economici. Tutto questo è necessario, imprescindibile. Ma per me, c’è un’altra cosa che è ancora più importante. Questa cosa ha un nome: è un nuovo atteggiamento. Se non cambieremo l’atteggiamento non conquisteremo una condizione migliore. Potremo avere più tecnici, più ospedali, più scuole, ma non saremo costruttori di futuro. Parlo di un nuovo atteggiamento ma la parola deve essere pronunciata al plurale, poiché compone un insieme vasto di posizioni, convinzioni, concetti e pre-concetti. E’ molto tempo che difendo il concetto che il ritardo del Mozambico non è nell’economia ma nell’incapacità di generare un pensiero produttivo, audace e innovatore. Un pensiero che non nasca da ripetizione di luoghi comuni, di formule e ricette già pensate da altri. A volte mi domando: da dove viene la difficoltà di pensarci come soggetti della Storia? Viene soprattutto dal fatto di avere sempre legato agli altri il disegno della nostra propria identità. Prima, gli africani furono negati. Il loro territorio era l’assenza, il loro tempo era fuori dalla Storia. Poi, gli africani furono studiati come un caso clinico. Ora, sono aiutati a sopravvivere nel terreno della Storia. Stiamo tutti inaugurando una lotta interiore per addomesticare i nostri antichi fantasmi. Non possiamo entrare nella modernità con l’attuale fardello di pre-concetti. Alla porta della modernità dobbiamo levarci le scarpe. Io ho contato sette scarpe sporche che dobbiamo lasciare alla soglia della porta dei tempi nuovi. Ce ne sarebbero molte. Ma io dovevo scegliere e il sette è un numero magico.
La prima scarpa: l’idea che i colpevoli sono sempre gli altri e noi siamo sempre vittime. Già conosciamo questo discorso. La colpa è della guerra, del colonialismo, dell’imperialismo, dell’Apartheid, e infine, di tutto e di tutti. Meno che nostra. E’ vero che gli altri hanno la loro dose di colpa nella nostra sofferenza. Ma parte della responsabilità ha sempre abitato in casa. Siamo vittime di un lungo processo di de-responsabilizzazione. Questo lavarsene le mani è stato stimolato da alcune elite africane che vogliono rimanere impunite. I colpevoli sono subito trovati: sono gli altri, quelli dell’altra etnia, dell’altra razza, dell’altra geografia. Tempo fa fui rapito da un libro intitolato Capitalist Nigger: the Road to Success di un nigeriano chiamato Chika A. Onyeani. Ho riprodotto nel nostro giornale un testo di questo economista che è un appello veemente perché gli africani ricomincino a guardare a se stessi. Permettetemi di leggere un passaggio del testo. Cari fratelli: sono assolutamente stanco di persone che pensano solo ad una cosa: lamentarsi e dispiacersi in un rituale in cui ci costruiamo mentalmente come vittime. Piangiamo e ci lamentiamo, ci lamentiamo e piangiamo. Ci lamentiamo fino alla nausea per quello che gli altri ci hanno fatto e continuano a farci. E pensiamo che il Mondo ci deve qualsiasi cosa. Mi dispiace dirvi che questa è un’illusione. Nessuno ci deve niente. Nessuno è disposto a rinunciare a quello che possiede, con la giustificazione che anche noi vogliamo la stessa cosa. Se vogliamo qualcosa dobbiamo conquistarcela. Non possiamo continuare a mendicare, fratelli e sorelle. 40 anni dopo l’Indipendenza continuiamo ad incolpare i colonizzatori per tutto quello che succede nell’Africa dei nostri giorni. I nostri Dirigenti non sono sempre sufficientemente onesti per accettare la propria responsabilità nella povertà del nostro popolo. Accusiamo gli europei di rubare le risorse naturali dell’Africa. Ma io vi domando: ditemi, chi invita gli europei a farlo, non siamo noi stessi? Vogliamo che gli altri ci guardino con dignità e senza paternalismo. Ma allo stesso tempo continuiamo a guardare noi stessi con benevolenza compiacente: siamo esperti nella creazione di discorsi de-responsabilizzanti. E diciamo: 1 Che qualcuno ruba perché, poverino, è povero (dimenticando che ci sono migliaia di altri poveri che non rubano) 2 Che il funzionario o il poliziotto sono corrotti perché, poverini, hanno un salario insufficiente (dimenticando che nessuno, in questo Mondo, ha un salario sufficiente) 3 Che il politico ha abusato del potere perché, poverino, nell’Africa profonda, queste pratiche sono antropologicamente legittime. La de-responsabilizzazione è una delle più gravi stigmate che pesa su di noi, africani da Nord a Sud. Ci sono quelli che dicono che si tratta di un’eredità della schiavitù, del tempo in cui non si era padroni di se stessi. Il padrone, molte volte distante e invisibile, era responsabile per il nostro destino. O per la mancanza di destino. Oggi, nemmeno simbolicamente, uccidiamo l’antico padrone. Una delle forme di cortesia che più rapidamente sorse da dieci anni a questa parte fu la parola “padrone”. Fu come se non fosse mai realmente morto, come se aspettasse una opportunità storica per risorgere nel nostro quotidiano. Si può incolpare qualcuno di questo risorgimento? No. Ma noi stiamo creando una società che produce disuguaglianze e che riproduce relazioni di potere che credevamo fossero già sotterrate. Seconda scarpa: l’idea che il successo non nasce dal lavoro Ancora oggi mi sono svegliato con la notizia di un Presidente africano che ha fatto esorcizzare il suo palazzo di 300 stanze perché udiva strani rumori durante la notte. Il palazzo è tanto sproporzionato per la ricchezza del Paese che ci sono voluti 20 anni per terminarlo. L’insonnia del presidente africano può essere dovuta non tanto a spiriti maligni quanto ad un male della coscienza. L’episodio dimostra il modo in cui ancora spieghiamo i fenomeni positivi e negativi. Quello che spiega la disgrazia abita vicino a quello che giustifica la buona sorte. La squadra sportiva vince, l’opera d’arte è premiata, l’impresa guadagna, il funzionario è promosso? A cosa si deve tutto ciò? La prima risposta, amici miei, la conosciamo tutti. Il successo si deve alla buona sorte. E la parola “buona sorte” vuol dire due cose: la protezione degli antenati morti e quella dei padrini vivi. Mai o quasi mai si vede il risultato come esito dello sforzo, del lavoro come investimento a lungo termine. Le cause di quello che ci capita (di bene o male) sono attribuite a forze invisibili che comandano il destino. Per qualcuno questa visione causale è talmente intrinsecamente “africana” che perderemmo “identità” se la abbandonassimo. Il dibattito sulle “autentiche” identità è sempre scivoloso.Vale la pena dibattere, se possiamo rinforzare una visione più produttiva e che punti ad un atteggiamento più attivo e di intervento sopra il corso della Storia. Sfortunatamente guardiamo a noi più come consumatori che come produttori. L’idea che l’Africa può produrre arte, scienza e pensiero è strana anche per gli stessi africani. Anche qui il continente ha prodotto risorse naturali e forza lavoro. Ha prodotto calciatori, ballerini, scultori. Tutto questo viene accettato, tutto questo risiede nel dominio di quello che si intende come “naturale”. Ma pochi accettano che gli africani possano essere produttori di idee, di etica e di modernità. Non è necessario che gli altri non ci credano. Noi stessi ci carichiamo di questa sfiducia. Il detto dice “la capretta mangia dove è legata”. Tutti conosciamo l’uso di questo aforisma. Già è triste che ci equipariamo a capretti. Ma è sintomatico che, in questi proverbi, non ci identifichiamo mai in animali produttivi, come per esempio le formiche. Immaginiamo che il detto cambiasse così “La capretta produce dove è legata”. Scommetto che, in questo caso, nessuno vorrebbe essere capretta. Terza scarpa: il pre-concetto che chi critica è un nemico. Molti credono che, con la fine del mono-partitismo, sarebbe finita l’intolleranza per quelli che pensano in modo differente. Ma l’intolleranza non è solo frutto dei regimi. E’ frutto di culture, è il risultato della Storia. Ereditiamo dalla società rurale una nozione di lealtà che è troppo parrocchiale. Questo scoraggiare lo spirito critico è ancora più grave quando si tratta di gioventù. L’universo rurale è fondato sull’autorità dell’età; quello che è giovane, quello che non si è sposato o che non ha avuto figli, non ha diritti, né ha voce o visibilità. La stessa emarginazione pesa sopra la donna. Tutta questa eredità non aiuta a creare una cultura di discussione frontale e aperta. Lo scambio di idee è, così, sostituito dall’aggressione personale. E’ sufficiente demonizzare chi pensa in modo differente. Esistono tanti demoni a disposizione: il colore politico, il colore dell’anima, il colore della pelle, l’origine sociale o religiosa diversa. C’è in questo dominio una componente storica recente che dobbiamo considerare: il Mozambico è nato da una lotta di guerriglia. Quest’eredità ci ha dato un senso epico della storia e un profondo orgoglio nel modo in cui fu conquistata l’indipendenza. Ma la lotta armata di liberazione nazionale cedette, per inerzia, all’idea che il popolo era una specie di esercito che poteva essere comandato con disciplina militare. Negli anni post-indipendenza, tutti eravamo militanti, tutti avevamo una sola causa, la nostra intera anima si piegava nel saluto militare in presenza dei capi. E c’erano tanti capi. Quest’eredità non aiutò a che nascesse una capacità di insubordinazione positiva. Vi faccio una confidenza. All’inizio degli anni ’80 feci parte di un gruppo di scrittori e musicisti a cui fu data l’incombenza di produrre un nuovo Inno Nazionale e un nuovo Inno per il Partito Frelimo. La forma con cui abbiamo ricevuto l’incarico era indicativa di questa disciplina: ricevemmo la missione, fummo requisiti, e sotto l’ordine del Presidente Samara Machel fummo chiusi in una residenza in Matola e ci dissero: uscirete solo quando avrete finito l’Inno. Questa relazione tra il potere e gli artisti è pensabile solo in un dato quadro storico. Quello che è certo è che accettammo con dignità questa incombenza, questo lavoro rappresentava un onore e un dovere patriottico. E realmente ci comportammo più o meno bene. Era una momento di grandi difficoltà…e le tentazioni erano molte. In questa residenza in Matola c’era cibo, domestiche, piscina,,,in un momento in cui tutto mancava nella città. Nei primi giorni, confesso che eravamo affascinati da tanto benessere e oziavamo e correvamo al piano solo quando sentivamo le sirene dei capi che arrivavano. Questo sentimento di disobbedienza adolescente era il nostro modo di esercitare una piccola vendetta contro questa disciplina da reggimento. Nel testo di uno degli inni si rifletteva questa tendenza militarizzata, questa vicinanza metaforica a cu già ho fatto riferimento: “Siamo soldati del popolo- Marciando in avanti”. Tutto questo va visto nel suo contesto senza risentimento. Alla fine fu così che nacque Patria Amata, quest’inno che canta di noi come un solo popolo, unito per un sogno comune.
Quarta scarpa: l’idea che cambiare le parole cambia la realtà. Una volta a New York un nostro concittadino tenne una conferenza sulla situazione della nostra economia e, ad un certo momento, parlò del mercato nero. Fu la fine del mondo. Si udirono voci indignate di protesta e il mio povero amico dovette interrompere, senza capire bene cosa stesse succedendo. Il giorno successivo abbiamo ricevuto una specie di piccolo dizionario dei termini politicamente non corretti. Erano bandite parole come ceco, sordo, grasso, magro ecc. Noi fummo il rimorchio di queste preoccupazioni di ordine cosmetico. Stiamo riproducendo un discorso che privilegia il superficiale e che suggerisce che, cambiando la copertura, la torta diventa commestibile. Oggi assistiamo, per esempio, a esitazioni sui termini “negro” o “nero”. Come se il problema fosse nelle parole, in se stesse. Il fatto curioso è che, mentre stiamo scegliendo, continuiamo a usare parole realmente peggiorative come “mulatto” o “monhé” (meticcio tra arabo e nero). C’è tutta una generazione che sta imparando una lingua, la lingua dei workshops. E’ una lingua semplice, una specie di creolo a metà strada tra l’inglese e il portoghese. In verità, non è una lingua ma un vocabolario di robaccia. Basta sapere agitare una delle tante parole di moda per parlare come gli altri, ma senza dire nulla. Vi consiglio fortemente alcuni termini come, per esempio: sviluppo sostenibile awarenesses o accountability comunità locali… questi ingredienti devono essere usati preferibilmente in formato “powerpoint”. Un altro segreto per fare bella figura nei workshops è usare tante sigle. Perché un “workshoppista” di categoria domina questi acronimi. Cito qui una possibile frase di una possibile relazione: I ODMS del PNUD si equiparano al NEPAD della UA e al PARPA del GOM. A buon intenditore basta mezza sigla. Sono di un tempo in cui quello che eravamo era misurato su quello che facevamo. Oggi quello che siamo è misurato sullo spettacolo che facciamo di noi stessi, sul modo in cui ci mettiamo in mostra. Il CV, il biglietto da visita pieno di ricercatezze e titoli, la bibliografia delle pubblicazioni che quasi nessuno ha letto, tutto questo sembra suggerire una cosa: l’apparenza vale più della capacità di fare. Molte delle istituzioni che dovrebbero produrre idee oggi producono fogli, riempiendo scaffali di relazioni condannate ad essere archivio morto. Al posto di soluzioni si trovano problemi. Al posto di azioni si suggeriscono nuovi studi.
Quinta scarpa: la vergogna di essere povero e il culto delle apparenze. La fretta di mostrare che non si è poveri è, in se stessa, un attestato di povertà. La nostra povertà non può essere motivo di vergogna. Chi dovrebbe provare vergogna non è il povero ma chi crea povertà. Viviamo oggi una frettolosa preoccupazione nell’esibire finti segni di ricchezza. Si è creata l’idea che lo statuto di “cittadino” nasce dai segni che lo differenziano dai più poveri. Mi ricordo che una volta volevo comprare una macchina a Maputo. Quando il venditore vide l’auto che avevo scelto quasi ebbe uno shock. “Ma questo, Sig. Mia, Lei ha bisogno di una vettura adatta”. Termine curioso: “adatta”. Stiamo vivendo in un palco di teatro e di spettacoli: una vettura non è un oggetto funzionale. E’ un passaporto per uno stato di importanza, una fonte di vanità. L’auto è diventata un motivo di idolatria, una specie di santuario, una vera ossessione promozionale. Questa malattia, questa religione che si potrebbe chiamare “vetturolatria” ha infettato dal dirigente di Stato al ragazzo di strada. Un bambino che non sa leggere sa riconoscere la marca e tutti i dettagli dei modelli d’auto. E’ triste che l’orizzonte di ambizioni sia così vuoto e si riduca allo splendore di una marca di automobili. Urge che le nostre scuole esaltino l’umiltà e la semplicità come valori positivi. L’arroganza e l’esibizionismo non sono emanazioni dell’essenza della cultura africana del potere. Sono emanazioni di chi prende il contenitore per il contenuto.
Sesta scarpa: la passività davanti all’ingiustizia. Siamo disposti a denunciare le ingiustizie quando vengono commesse contro di noi, il nostro gruppo, la nostra etnia, la nostra religione. Siamo meno disposti quando l’ingiustizia è praticata contro altri. Persistono il Mozambico zone silenziose di ingiustizia, aree dove il crimine rimane invisibile. Mi riferisco in particolare a: violenza domestica (il 40% dei crimini risultano da aggressione domestica contro donne, questo è un crimine invisibile), violenza contro le vedove, la forma degradante con cui sono trattati molti lavoratori, i maltrattamenti inflitti ai bambini. Siamo rimasti scandalizzati con il recente annuncio che privilegiava candidati di razza bianca. Sono state prese misure immediate e questo è stato corretto. Nonostante ciò, esistono inviti alla discriminazione che sono tanto o più gravi e che accettiamo come naturali e indiscutibili. Prendiamo questo annuncio del giornale e immaginiamo che fosse scritto in forma corretta e non razzista. Allora sarebbe andato bene? Io non so se tutti sanno qual è la tiratura del giornale”Notícias”. E’ di 13 mila copie. Anche se supponessimo che ogni giornale venga letto da 5 persone, risulta che il numero di lettori è minore della popolazione di un quartiere di Maputo. E’ dentro questo universo che circolano inviti e gli accessi alle opportunità. Ho parlato della tiratura ma ho lasciato in disparte il problema della circolazione. Per quale ristretta geografia circolano i messaggi dei nostri giornali? Quanto Mozambico è escluso? E’ vero che questa discriminazione non è paragonabile all’annuncio razzista poiché non è un risultato di un’azione esplicita e cosciente. Ma gli effetti di discriminazione ed esclusione di queste pratiche sociali devono essere valutati e non possono cadere nel sacco della normalità. Questo “quartiere” di 60.000 persone è oggi una nazione dentro una nazione, una nazione che arriva per prima, che si scambia favori, che vive in portoghese e dorme nel cuscino della scrittura. Un altro esempio. Stiamo somministrando farmaci anti-retrovirali a circa 30.000 malati di AIDS. Questo numero potrà, nei prossimi anni, arrivare a 50.000. Questo significa che circa un milione e quattrocentocinquantamila malati sono esclusi dal trattamento. Si tratta di una decisione con implicazioni etiche terribili. Come e chi decide chi rimane fuori? E’ accettabile, domando, che la vita di un milione e mezzo di cittadini sia nelle mani di un piccolo gruppo etnico?
Settima scarpa: l’idea che per essere moderni dobbiamo imitare gli altri. Tutti i giorni riceviamo strane visite nella nostra casa. Entrano da una cassa magica chiamata televisione. Creano una relazione di virtuale familiarità. A poco a poco arriveremo a credere di essere noi a vivere fuori, ballando tra le braccia di Janet Jackson. Quello che i video e tutta la sotto-industria televisiva ci dicono non è solo “compra”. C’è tutto un altro invito che è questo: “sii come noi”. Questo appello alla imitazione cade come l’oro sopra l’azzurro: la vergogna di essere quello che siamo è uno stimolo a vestire quest’altra maschera. Il risultato è che la nostra produzione culturale si sta convertendo in una riproduzione scimmiottata della cultura degli altri. Il futuro della nostra musica potrà essere una specie di Hip-Hop tropicale, il destino della nostra cucina potrà essere “Mãe Donalrfs”. Parliamo dell’erosione del suolo, della deforestazione, ma l’erosione della nostra cultura è ancora più preoccupante. La diminuzione di importanza delle lingue mozambicane (incluso il portoghese) e la idea che abbiamo una identità solo in quello che è popolare sono modi per farci suggerire questo messaggio: siamo moderni solo se siamo americani. Il nostro corpo sociale ha una storia simile a quella di una persona. Siamo segnati da rituali di transizione: la nascita, il matrimonio, la fine dell’adolescenza, la fine della vita. Io osservo la nostra società urbana e mi chiedo: sarà che vogliamo realmente essere diversi? Perché io vedo che questi rituali di passaggio si riproducono come fotocopie fedeli di quello che ho sempre riconosciuto nelle società coloniali. Stiamo ballando il walzer, con vestiti lunghi, in un ballo che è ricalcato da quelli del mio tempo. Stiamo copiando le cerimonie di fine-corso partendo da modelli europei dell’Inghilterra medievale. Ci sposiamo con veli e ghirlande e gettiamo lontano da Julius Nyerere tutto quello che possa suggerire una cerimonia con più radici nella terra e nella tradizione mozambicana.
Signore e Signori. Ho parlato del carico che dobbiamo sdoganare per entrare a pieno titolo nella modernità. Ma la modernità non è una porta fatta solo dagli altri. Anche noi siamo carpentieri di questa costruzione e a noi interessa entrare in una modernità di cui anche noi siamo costruttori. Il mio messaggio è semplice: più che di una generazione tecnicamente capace, abbiamo bisogno di una generazione capace di discutere la tecnica. Una gioventù capace di ripensare il Paese e il Mondo. Più che di gente preparata a dare risposte, abbiamo bisogno di capacità per fare domande. Il Mozambico non ha bisogno solo di camminare. Necessita di scoprire la propria strada in un periodo scuro e in un mondo senza direzione. La bussola degli altri non serve, la mappa degli altri non aiuta. Abbiamo bisogno di inventare i nostri propri punti cardinali. Ci interessa un passato che non sia carico di pre-concetti, ci interessa un futuro che non venga disegnato come una ricetta finanziaria. L’Università deve essere un centro di dibattito, una fabbrica di cittadinanza attiva, una forgia di inquietitudine solidale e di ribellione costruttiva. Non possiamo allenare giovani professionisti di successo in un oceano di miseria. L’Università non può accettare di essere riproduttrice di ingiustizia e disuguaglianza. Ci stiamo occupando di giovani e dobbiamo avere pensieri giovani, fertili e produttivi. Questa idea non si ordina, non nasce da sola. Nasce dal dibattito, dalla ricerca innovatrice, dall’informazione aperta e attenta a quello che di meglio sta sorgendo in Africa e nel Mondo. La questione è questa: si parla molto dei giovani. Si parla poco con i giovani. O meglio, si parla con loro quando diventano un problema. La gioventù vive questa condizione ambigua, danzando tra la visione romantica (che è la linfa della Nazione) e una condizione maligna, un nido di rischi e preoccupazioni (AIDS, droga, disoccupazione).
Signori e Signore. Non solo lo Zambia vide nell’educazione quello che il naufrago vede in una zattera di salvataggio. Anche noi depositiamo i nostri sogni in questo conto. L’anno scorso, in una sessione pubblica in Maputo una nazionalista già anziano disse, con verità e coraggio, quello che già in molti sappiamo. Confessò che lui stesso e molti di quelli che, negli anni ’60, fuggirono verso il Frelimo, non erano solo motivati da dedicazione ad una causa indipendentista. Rischiarono e varcarono la frontiera della paura per avere la possibilità di studiare. Il fascino dell’educazione come un passaporto per una vita migliore era presente in un universo in cui quasi nessuno poteva studiare. Questa restrizione era comune a tutta l’Africa. Fino al 1940 il numero di africani che frequentavano le scuole secondare non arrivava a 11.000. Oggi, la situazione è migliorata e questo numero si è moltiplicato migliaia e migliaia di volte. Il continente ha investito nella creazione di nuove capacità. E questo investimento ha prodotto, senza dubbio, risultati importanti. A pochi è chiaro, però, che più quadri tecnici non risolvono, da soli, la miseria di una nazione. Se un Paese non possiede strategie nuove per la produzione di soluzioni profonde tutto questo investimento non produrrà la differenza desiderata. Se le capacità di una nazione saranno usate per l’arricchimento rapido di una piccola elite, varrà poco avere più quadri tecnici. La scuola è un mezzo per desiderare quello che non abbiamo. La vita, poi, ci insegna ad avere quello che non desideriamo. Tra la scuola e la vita non ci rimane che essere sinceri e confessare ai più giovani che anche noi non sappiamo, e che anche noi, professori e padri, siamo alla ricerca di risposte. Con il nuovo governo è rinata la lotta per la auto-stima. Questo è corretto e opportuno. Dobbiamo piacere a noi stessi, dobbiamo credere nelle nostre capacità. Ma questo appello all’amor proprio non può essere fondato su una vanità vuota, su una specie di futile narcisismo. Alcuni credono di riscattare questo orgoglio guardando al passato. E’ vero che bisogna sentire che abbiamo radici e che queste radici ci onorano. Ma l’auto-stima non può essere costruita solo di materiale del passato. In verità, esiste un solo modo di valorizzarci: è attraverso il lavoro, attraverso le cose che siamo in grado di fare. Dobbiamo saper accettare questa condizione senza complessi e senza vergogna: siamo poveri. O meglio, siamo stati impoveriti dalla Storia. Ma noi facciamo parte di questa Storia, siamo stati impoveriti anche da noi stessi. La ragione dei nostri attuali e futuri fallimenti abita anche dentro di noi. Ma anche la forza di superare la nostra condizione storica risiede dentro di noi. Sapremo, come già abbiamo saputo, conquistare la certezza di essere produttori del nostro destino. Avremo più orgoglio nell’essere noi stessi: mozambicani costruttori di un tempo e di un luogo dove nascere tutti i giorni. E’ per questo che vale la pena accettare di levarci non solo queste sette ma tutte le scarpe che ritardano la nostra marcia collettiva.
Perché la verità è una: è meglio camminare scalzi che inciampare con le scarpe degli altri.
Buona lettura
OS SETE SAPATOS SUJOS (Le sette scarpe sporche) dello scrittore mozambicano MIA COUTO
Tutti i giorni ci confrontiamo con un appello per combattere la povertà. E tutti noi, in modo generoso e patriottico, desideriamo partecipare a questa battaglia. Esistono, però, varie forme di povertà. E c’è, fra tutte, una che scappa alle statistiche e agli indicatori numerici: è la mancanza di riflessione sopra noi stessi. Parlo della difficoltà di pensare a noi come soggetti storici, come punto di partenza e come obiettivo di un sogno… C’è adesso un annuncio nelle nostre stazioni radio in cui qualcuno domanda alla vicina: mi dica signora, cosa succede a casa sua? Suo figlio è capo-gruppo, le sue figlie si sono accasate bene, suo marito è stato nominato direttore, mi dica, qual è il segreto? E la signora risponde: in casa nostra mangiamo riso di marca XXX Sarebbe bello se la nostra vita cambiasse mangiando un prodotto alimentare. Già mi vedo il nostro Magnifico Rettore distribuire il magico riso e aprire in Università le porte al successo e alla felicità. Ma essere felici è, sfortunatamente, molto più faticoso. Nel giorno in cui io compì 11 anni, il 5 luglio 1966, il Presidente Kenneth Kaunda annunciò ai microfoni di Radio Lusaka che uno dei grandi pilastri della felicità del suo popolo era stato costruito. Non parlava di nessuna marca di riso. Ringraziò il popolo dello Zambia per il coinvolgimento nella costruzione della prima Università del Paese. Un mese prima, Kaunda aveva lanciato un appello perché ogni zambiano contribuisse per costruire l’Università. La risposta fu commovente: decina di migliaia di persone risposero all’appello. I contadini donarono miglio, i pescatori offrirono pesce, i funzionari diedero denaro. Un Paese di gente analfabeta si unì per creare quello che immaginavano essere una pagina nuova nella loro storia. Il messaggio dei contadini nella inaugurazione diceva: noi abbiamo dato perché crediamo che, facendo ciò, i nostri nipoti smetteranno di soffrire la fame. Quaranta anni dopo, i nipoti degli agricoltori zambiani continuano a soffrire la fame. In verità, gli zambiani vivono oggi peggio di allora. Negli anni ‘60, lo Zambia beneficiava di un prodotto interno lordo paragonabile a quello di Singapore e della Malesia. Oggi, non si può nemmeno paragonare con i Paesi dell’Asia. Alcune Nazioni africane possono spiegare la permanenza della miseria con la presenza di guerre. Ma lo Zambia non ha mai avuto guerre. Alcuni Paesi possono argomentare di non possedere risorse. Tuttavia lo Zambia è una Nazione con molte risorse minerarie. Di chi è la colpa di queste aspettative frustrate? Chi ha sbagliato? L’Università? La Società? Il Mondo intero? Perché Singapore e la Malesia progredirono e lo Zambia regredì? Ho parlato dello Zambia come un Paese africano a caso. Sfortunatamente non mancano altri esempi. Il nostro continente è pieno di casi identici, di strade sbagliate, di speranze frustrate. Ormai è generalizzato il pensiero che è impossibile per noi cambiare il destino del nostro continente. Vale la pena domandarci: cosa sta succedendo? Cosa bisogna cambiare dentro e fuori l’Africa? Queste domande sono serie. Non possiamo eludere le risposte, né continuare a gettare sabbia per nascondere le responsabilità. Non possiamo accettare che siano solo preoccupazioni dei Governi. Fortunatamente, stiamo vivendo in Mozambico una situazione particolare, con differenze evidenti. Dobbiamo riconoscere ed essere orgogliosi del fatto che il nostro percorso è stato ben diverso. Dal 1957, solo sei su 153 Capi di Stato africani rinunciarono volontariamente al potere. Joaquim Chissano è il settimo di questi presidenti. Sembra un dettaglio ma è ben indicativo del fatto che il processo mozambicano seguì logiche diverse. Nonostante ciò, la conquista della libertà e della democrazia di cui oggi usufruiamo saranno definitive quando si convertiranno in cultura per ognuno di noi. E questo è ancora un cammino di generazioni. Nel frattempo, pesano sopra il Mozambico minacce che sono comuni a tutto il continente. La fame, la miseria, le malattie, tutto quello che dividiamo con il resto dell’Africa. I numeri sono spaventosi: 90 milioni di africani moriranno di AIDS nei prossimi 20 anni. Per questo tragico numero, il Mozambico contribuirà con circa 3 milioni di morti. La maggiore parte di questi condannati sono giovani e rappresentano esattamente la valanga con cui potremmo rimuovere il peso della miseria. Intendo dire, l’Africa non solo sta perdendo il suo presente: sta perdendo il terreno dove potrebbe nascere un nuovo domani. Avere un futuro costa molto denaro. Ma è molto più costoso avere solo un passato. Prima dell’indipendenza, per i contadini zambiani non c’era futuro. Oggi l’unico tempo che esiste per loro è il futuro degli altri. Le sfide sono maggiori della speranza? Ma noi non possiamo che essere ottimisti e fare quello che i Brasiliani chiamano “alzarsi, spazzare la polvere cercare di risalire”. Il pessimismo è un lusso per i ricchi. La domanda cruciale è questa: cosa ci separa dal futuro che tutti vogliamo? Alcuni credono che quello che manca sono più servizi, più scuole, più ospedali. Altri credono che abbiamo bisogno di più investitori, più progetti economici. Tutto questo è necessario, imprescindibile. Ma per me, c’è un’altra cosa che è ancora più importante. Questa cosa ha un nome: è un nuovo atteggiamento. Se non cambieremo l’atteggiamento non conquisteremo una condizione migliore. Potremo avere più tecnici, più ospedali, più scuole, ma non saremo costruttori di futuro. Parlo di un nuovo atteggiamento ma la parola deve essere pronunciata al plurale, poiché compone un insieme vasto di posizioni, convinzioni, concetti e pre-concetti. E’ molto tempo che difendo il concetto che il ritardo del Mozambico non è nell’economia ma nell’incapacità di generare un pensiero produttivo, audace e innovatore. Un pensiero che non nasca da ripetizione di luoghi comuni, di formule e ricette già pensate da altri. A volte mi domando: da dove viene la difficoltà di pensarci come soggetti della Storia? Viene soprattutto dal fatto di avere sempre legato agli altri il disegno della nostra propria identità. Prima, gli africani furono negati. Il loro territorio era l’assenza, il loro tempo era fuori dalla Storia. Poi, gli africani furono studiati come un caso clinico. Ora, sono aiutati a sopravvivere nel terreno della Storia. Stiamo tutti inaugurando una lotta interiore per addomesticare i nostri antichi fantasmi. Non possiamo entrare nella modernità con l’attuale fardello di pre-concetti. Alla porta della modernità dobbiamo levarci le scarpe. Io ho contato sette scarpe sporche che dobbiamo lasciare alla soglia della porta dei tempi nuovi. Ce ne sarebbero molte. Ma io dovevo scegliere e il sette è un numero magico.
La prima scarpa: l’idea che i colpevoli sono sempre gli altri e noi siamo sempre vittime. Già conosciamo questo discorso. La colpa è della guerra, del colonialismo, dell’imperialismo, dell’Apartheid, e infine, di tutto e di tutti. Meno che nostra. E’ vero che gli altri hanno la loro dose di colpa nella nostra sofferenza. Ma parte della responsabilità ha sempre abitato in casa. Siamo vittime di un lungo processo di de-responsabilizzazione. Questo lavarsene le mani è stato stimolato da alcune elite africane che vogliono rimanere impunite. I colpevoli sono subito trovati: sono gli altri, quelli dell’altra etnia, dell’altra razza, dell’altra geografia. Tempo fa fui rapito da un libro intitolato Capitalist Nigger: the Road to Success di un nigeriano chiamato Chika A. Onyeani. Ho riprodotto nel nostro giornale un testo di questo economista che è un appello veemente perché gli africani ricomincino a guardare a se stessi. Permettetemi di leggere un passaggio del testo. Cari fratelli: sono assolutamente stanco di persone che pensano solo ad una cosa: lamentarsi e dispiacersi in un rituale in cui ci costruiamo mentalmente come vittime. Piangiamo e ci lamentiamo, ci lamentiamo e piangiamo. Ci lamentiamo fino alla nausea per quello che gli altri ci hanno fatto e continuano a farci. E pensiamo che il Mondo ci deve qualsiasi cosa. Mi dispiace dirvi che questa è un’illusione. Nessuno ci deve niente. Nessuno è disposto a rinunciare a quello che possiede, con la giustificazione che anche noi vogliamo la stessa cosa. Se vogliamo qualcosa dobbiamo conquistarcela. Non possiamo continuare a mendicare, fratelli e sorelle. 40 anni dopo l’Indipendenza continuiamo ad incolpare i colonizzatori per tutto quello che succede nell’Africa dei nostri giorni. I nostri Dirigenti non sono sempre sufficientemente onesti per accettare la propria responsabilità nella povertà del nostro popolo. Accusiamo gli europei di rubare le risorse naturali dell’Africa. Ma io vi domando: ditemi, chi invita gli europei a farlo, non siamo noi stessi? Vogliamo che gli altri ci guardino con dignità e senza paternalismo. Ma allo stesso tempo continuiamo a guardare noi stessi con benevolenza compiacente: siamo esperti nella creazione di discorsi de-responsabilizzanti. E diciamo: 1 Che qualcuno ruba perché, poverino, è povero (dimenticando che ci sono migliaia di altri poveri che non rubano) 2 Che il funzionario o il poliziotto sono corrotti perché, poverini, hanno un salario insufficiente (dimenticando che nessuno, in questo Mondo, ha un salario sufficiente) 3 Che il politico ha abusato del potere perché, poverino, nell’Africa profonda, queste pratiche sono antropologicamente legittime. La de-responsabilizzazione è una delle più gravi stigmate che pesa su di noi, africani da Nord a Sud. Ci sono quelli che dicono che si tratta di un’eredità della schiavitù, del tempo in cui non si era padroni di se stessi. Il padrone, molte volte distante e invisibile, era responsabile per il nostro destino. O per la mancanza di destino. Oggi, nemmeno simbolicamente, uccidiamo l’antico padrone. Una delle forme di cortesia che più rapidamente sorse da dieci anni a questa parte fu la parola “padrone”. Fu come se non fosse mai realmente morto, come se aspettasse una opportunità storica per risorgere nel nostro quotidiano. Si può incolpare qualcuno di questo risorgimento? No. Ma noi stiamo creando una società che produce disuguaglianze e che riproduce relazioni di potere che credevamo fossero già sotterrate. Seconda scarpa: l’idea che il successo non nasce dal lavoro Ancora oggi mi sono svegliato con la notizia di un Presidente africano che ha fatto esorcizzare il suo palazzo di 300 stanze perché udiva strani rumori durante la notte. Il palazzo è tanto sproporzionato per la ricchezza del Paese che ci sono voluti 20 anni per terminarlo. L’insonnia del presidente africano può essere dovuta non tanto a spiriti maligni quanto ad un male della coscienza. L’episodio dimostra il modo in cui ancora spieghiamo i fenomeni positivi e negativi. Quello che spiega la disgrazia abita vicino a quello che giustifica la buona sorte. La squadra sportiva vince, l’opera d’arte è premiata, l’impresa guadagna, il funzionario è promosso? A cosa si deve tutto ciò? La prima risposta, amici miei, la conosciamo tutti. Il successo si deve alla buona sorte. E la parola “buona sorte” vuol dire due cose: la protezione degli antenati morti e quella dei padrini vivi. Mai o quasi mai si vede il risultato come esito dello sforzo, del lavoro come investimento a lungo termine. Le cause di quello che ci capita (di bene o male) sono attribuite a forze invisibili che comandano il destino. Per qualcuno questa visione causale è talmente intrinsecamente “africana” che perderemmo “identità” se la abbandonassimo. Il dibattito sulle “autentiche” identità è sempre scivoloso.Vale la pena dibattere, se possiamo rinforzare una visione più produttiva e che punti ad un atteggiamento più attivo e di intervento sopra il corso della Storia. Sfortunatamente guardiamo a noi più come consumatori che come produttori. L’idea che l’Africa può produrre arte, scienza e pensiero è strana anche per gli stessi africani. Anche qui il continente ha prodotto risorse naturali e forza lavoro. Ha prodotto calciatori, ballerini, scultori. Tutto questo viene accettato, tutto questo risiede nel dominio di quello che si intende come “naturale”. Ma pochi accettano che gli africani possano essere produttori di idee, di etica e di modernità. Non è necessario che gli altri non ci credano. Noi stessi ci carichiamo di questa sfiducia. Il detto dice “la capretta mangia dove è legata”. Tutti conosciamo l’uso di questo aforisma. Già è triste che ci equipariamo a capretti. Ma è sintomatico che, in questi proverbi, non ci identifichiamo mai in animali produttivi, come per esempio le formiche. Immaginiamo che il detto cambiasse così “La capretta produce dove è legata”. Scommetto che, in questo caso, nessuno vorrebbe essere capretta. Terza scarpa: il pre-concetto che chi critica è un nemico. Molti credono che, con la fine del mono-partitismo, sarebbe finita l’intolleranza per quelli che pensano in modo differente. Ma l’intolleranza non è solo frutto dei regimi. E’ frutto di culture, è il risultato della Storia. Ereditiamo dalla società rurale una nozione di lealtà che è troppo parrocchiale. Questo scoraggiare lo spirito critico è ancora più grave quando si tratta di gioventù. L’universo rurale è fondato sull’autorità dell’età; quello che è giovane, quello che non si è sposato o che non ha avuto figli, non ha diritti, né ha voce o visibilità. La stessa emarginazione pesa sopra la donna. Tutta questa eredità non aiuta a creare una cultura di discussione frontale e aperta. Lo scambio di idee è, così, sostituito dall’aggressione personale. E’ sufficiente demonizzare chi pensa in modo differente. Esistono tanti demoni a disposizione: il colore politico, il colore dell’anima, il colore della pelle, l’origine sociale o religiosa diversa. C’è in questo dominio una componente storica recente che dobbiamo considerare: il Mozambico è nato da una lotta di guerriglia. Quest’eredità ci ha dato un senso epico della storia e un profondo orgoglio nel modo in cui fu conquistata l’indipendenza. Ma la lotta armata di liberazione nazionale cedette, per inerzia, all’idea che il popolo era una specie di esercito che poteva essere comandato con disciplina militare. Negli anni post-indipendenza, tutti eravamo militanti, tutti avevamo una sola causa, la nostra intera anima si piegava nel saluto militare in presenza dei capi. E c’erano tanti capi. Quest’eredità non aiutò a che nascesse una capacità di insubordinazione positiva. Vi faccio una confidenza. All’inizio degli anni ’80 feci parte di un gruppo di scrittori e musicisti a cui fu data l’incombenza di produrre un nuovo Inno Nazionale e un nuovo Inno per il Partito Frelimo. La forma con cui abbiamo ricevuto l’incarico era indicativa di questa disciplina: ricevemmo la missione, fummo requisiti, e sotto l’ordine del Presidente Samara Machel fummo chiusi in una residenza in Matola e ci dissero: uscirete solo quando avrete finito l’Inno. Questa relazione tra il potere e gli artisti è pensabile solo in un dato quadro storico. Quello che è certo è che accettammo con dignità questa incombenza, questo lavoro rappresentava un onore e un dovere patriottico. E realmente ci comportammo più o meno bene. Era una momento di grandi difficoltà…e le tentazioni erano molte. In questa residenza in Matola c’era cibo, domestiche, piscina,,,in un momento in cui tutto mancava nella città. Nei primi giorni, confesso che eravamo affascinati da tanto benessere e oziavamo e correvamo al piano solo quando sentivamo le sirene dei capi che arrivavano. Questo sentimento di disobbedienza adolescente era il nostro modo di esercitare una piccola vendetta contro questa disciplina da reggimento. Nel testo di uno degli inni si rifletteva questa tendenza militarizzata, questa vicinanza metaforica a cu già ho fatto riferimento: “Siamo soldati del popolo- Marciando in avanti”. Tutto questo va visto nel suo contesto senza risentimento. Alla fine fu così che nacque Patria Amata, quest’inno che canta di noi come un solo popolo, unito per un sogno comune.
Quarta scarpa: l’idea che cambiare le parole cambia la realtà. Una volta a New York un nostro concittadino tenne una conferenza sulla situazione della nostra economia e, ad un certo momento, parlò del mercato nero. Fu la fine del mondo. Si udirono voci indignate di protesta e il mio povero amico dovette interrompere, senza capire bene cosa stesse succedendo. Il giorno successivo abbiamo ricevuto una specie di piccolo dizionario dei termini politicamente non corretti. Erano bandite parole come ceco, sordo, grasso, magro ecc. Noi fummo il rimorchio di queste preoccupazioni di ordine cosmetico. Stiamo riproducendo un discorso che privilegia il superficiale e che suggerisce che, cambiando la copertura, la torta diventa commestibile. Oggi assistiamo, per esempio, a esitazioni sui termini “negro” o “nero”. Come se il problema fosse nelle parole, in se stesse. Il fatto curioso è che, mentre stiamo scegliendo, continuiamo a usare parole realmente peggiorative come “mulatto” o “monhé” (meticcio tra arabo e nero). C’è tutta una generazione che sta imparando una lingua, la lingua dei workshops. E’ una lingua semplice, una specie di creolo a metà strada tra l’inglese e il portoghese. In verità, non è una lingua ma un vocabolario di robaccia. Basta sapere agitare una delle tante parole di moda per parlare come gli altri, ma senza dire nulla. Vi consiglio fortemente alcuni termini come, per esempio: sviluppo sostenibile awarenesses o accountability comunità locali… questi ingredienti devono essere usati preferibilmente in formato “powerpoint”. Un altro segreto per fare bella figura nei workshops è usare tante sigle. Perché un “workshoppista” di categoria domina questi acronimi. Cito qui una possibile frase di una possibile relazione: I ODMS del PNUD si equiparano al NEPAD della UA e al PARPA del GOM. A buon intenditore basta mezza sigla. Sono di un tempo in cui quello che eravamo era misurato su quello che facevamo. Oggi quello che siamo è misurato sullo spettacolo che facciamo di noi stessi, sul modo in cui ci mettiamo in mostra. Il CV, il biglietto da visita pieno di ricercatezze e titoli, la bibliografia delle pubblicazioni che quasi nessuno ha letto, tutto questo sembra suggerire una cosa: l’apparenza vale più della capacità di fare. Molte delle istituzioni che dovrebbero produrre idee oggi producono fogli, riempiendo scaffali di relazioni condannate ad essere archivio morto. Al posto di soluzioni si trovano problemi. Al posto di azioni si suggeriscono nuovi studi.
Quinta scarpa: la vergogna di essere povero e il culto delle apparenze. La fretta di mostrare che non si è poveri è, in se stessa, un attestato di povertà. La nostra povertà non può essere motivo di vergogna. Chi dovrebbe provare vergogna non è il povero ma chi crea povertà. Viviamo oggi una frettolosa preoccupazione nell’esibire finti segni di ricchezza. Si è creata l’idea che lo statuto di “cittadino” nasce dai segni che lo differenziano dai più poveri. Mi ricordo che una volta volevo comprare una macchina a Maputo. Quando il venditore vide l’auto che avevo scelto quasi ebbe uno shock. “Ma questo, Sig. Mia, Lei ha bisogno di una vettura adatta”. Termine curioso: “adatta”. Stiamo vivendo in un palco di teatro e di spettacoli: una vettura non è un oggetto funzionale. E’ un passaporto per uno stato di importanza, una fonte di vanità. L’auto è diventata un motivo di idolatria, una specie di santuario, una vera ossessione promozionale. Questa malattia, questa religione che si potrebbe chiamare “vetturolatria” ha infettato dal dirigente di Stato al ragazzo di strada. Un bambino che non sa leggere sa riconoscere la marca e tutti i dettagli dei modelli d’auto. E’ triste che l’orizzonte di ambizioni sia così vuoto e si riduca allo splendore di una marca di automobili. Urge che le nostre scuole esaltino l’umiltà e la semplicità come valori positivi. L’arroganza e l’esibizionismo non sono emanazioni dell’essenza della cultura africana del potere. Sono emanazioni di chi prende il contenitore per il contenuto.
Sesta scarpa: la passività davanti all’ingiustizia. Siamo disposti a denunciare le ingiustizie quando vengono commesse contro di noi, il nostro gruppo, la nostra etnia, la nostra religione. Siamo meno disposti quando l’ingiustizia è praticata contro altri. Persistono il Mozambico zone silenziose di ingiustizia, aree dove il crimine rimane invisibile. Mi riferisco in particolare a: violenza domestica (il 40% dei crimini risultano da aggressione domestica contro donne, questo è un crimine invisibile), violenza contro le vedove, la forma degradante con cui sono trattati molti lavoratori, i maltrattamenti inflitti ai bambini. Siamo rimasti scandalizzati con il recente annuncio che privilegiava candidati di razza bianca. Sono state prese misure immediate e questo è stato corretto. Nonostante ciò, esistono inviti alla discriminazione che sono tanto o più gravi e che accettiamo come naturali e indiscutibili. Prendiamo questo annuncio del giornale e immaginiamo che fosse scritto in forma corretta e non razzista. Allora sarebbe andato bene? Io non so se tutti sanno qual è la tiratura del giornale”Notícias”. E’ di 13 mila copie. Anche se supponessimo che ogni giornale venga letto da 5 persone, risulta che il numero di lettori è minore della popolazione di un quartiere di Maputo. E’ dentro questo universo che circolano inviti e gli accessi alle opportunità. Ho parlato della tiratura ma ho lasciato in disparte il problema della circolazione. Per quale ristretta geografia circolano i messaggi dei nostri giornali? Quanto Mozambico è escluso? E’ vero che questa discriminazione non è paragonabile all’annuncio razzista poiché non è un risultato di un’azione esplicita e cosciente. Ma gli effetti di discriminazione ed esclusione di queste pratiche sociali devono essere valutati e non possono cadere nel sacco della normalità. Questo “quartiere” di 60.000 persone è oggi una nazione dentro una nazione, una nazione che arriva per prima, che si scambia favori, che vive in portoghese e dorme nel cuscino della scrittura. Un altro esempio. Stiamo somministrando farmaci anti-retrovirali a circa 30.000 malati di AIDS. Questo numero potrà, nei prossimi anni, arrivare a 50.000. Questo significa che circa un milione e quattrocentocinquantamila malati sono esclusi dal trattamento. Si tratta di una decisione con implicazioni etiche terribili. Come e chi decide chi rimane fuori? E’ accettabile, domando, che la vita di un milione e mezzo di cittadini sia nelle mani di un piccolo gruppo etnico?
Settima scarpa: l’idea che per essere moderni dobbiamo imitare gli altri. Tutti i giorni riceviamo strane visite nella nostra casa. Entrano da una cassa magica chiamata televisione. Creano una relazione di virtuale familiarità. A poco a poco arriveremo a credere di essere noi a vivere fuori, ballando tra le braccia di Janet Jackson. Quello che i video e tutta la sotto-industria televisiva ci dicono non è solo “compra”. C’è tutto un altro invito che è questo: “sii come noi”. Questo appello alla imitazione cade come l’oro sopra l’azzurro: la vergogna di essere quello che siamo è uno stimolo a vestire quest’altra maschera. Il risultato è che la nostra produzione culturale si sta convertendo in una riproduzione scimmiottata della cultura degli altri. Il futuro della nostra musica potrà essere una specie di Hip-Hop tropicale, il destino della nostra cucina potrà essere “Mãe Donalrfs”. Parliamo dell’erosione del suolo, della deforestazione, ma l’erosione della nostra cultura è ancora più preoccupante. La diminuzione di importanza delle lingue mozambicane (incluso il portoghese) e la idea che abbiamo una identità solo in quello che è popolare sono modi per farci suggerire questo messaggio: siamo moderni solo se siamo americani. Il nostro corpo sociale ha una storia simile a quella di una persona. Siamo segnati da rituali di transizione: la nascita, il matrimonio, la fine dell’adolescenza, la fine della vita. Io osservo la nostra società urbana e mi chiedo: sarà che vogliamo realmente essere diversi? Perché io vedo che questi rituali di passaggio si riproducono come fotocopie fedeli di quello che ho sempre riconosciuto nelle società coloniali. Stiamo ballando il walzer, con vestiti lunghi, in un ballo che è ricalcato da quelli del mio tempo. Stiamo copiando le cerimonie di fine-corso partendo da modelli europei dell’Inghilterra medievale. Ci sposiamo con veli e ghirlande e gettiamo lontano da Julius Nyerere tutto quello che possa suggerire una cerimonia con più radici nella terra e nella tradizione mozambicana.
Signore e Signori. Ho parlato del carico che dobbiamo sdoganare per entrare a pieno titolo nella modernità. Ma la modernità non è una porta fatta solo dagli altri. Anche noi siamo carpentieri di questa costruzione e a noi interessa entrare in una modernità di cui anche noi siamo costruttori. Il mio messaggio è semplice: più che di una generazione tecnicamente capace, abbiamo bisogno di una generazione capace di discutere la tecnica. Una gioventù capace di ripensare il Paese e il Mondo. Più che di gente preparata a dare risposte, abbiamo bisogno di capacità per fare domande. Il Mozambico non ha bisogno solo di camminare. Necessita di scoprire la propria strada in un periodo scuro e in un mondo senza direzione. La bussola degli altri non serve, la mappa degli altri non aiuta. Abbiamo bisogno di inventare i nostri propri punti cardinali. Ci interessa un passato che non sia carico di pre-concetti, ci interessa un futuro che non venga disegnato come una ricetta finanziaria. L’Università deve essere un centro di dibattito, una fabbrica di cittadinanza attiva, una forgia di inquietitudine solidale e di ribellione costruttiva. Non possiamo allenare giovani professionisti di successo in un oceano di miseria. L’Università non può accettare di essere riproduttrice di ingiustizia e disuguaglianza. Ci stiamo occupando di giovani e dobbiamo avere pensieri giovani, fertili e produttivi. Questa idea non si ordina, non nasce da sola. Nasce dal dibattito, dalla ricerca innovatrice, dall’informazione aperta e attenta a quello che di meglio sta sorgendo in Africa e nel Mondo. La questione è questa: si parla molto dei giovani. Si parla poco con i giovani. O meglio, si parla con loro quando diventano un problema. La gioventù vive questa condizione ambigua, danzando tra la visione romantica (che è la linfa della Nazione) e una condizione maligna, un nido di rischi e preoccupazioni (AIDS, droga, disoccupazione).
Signori e Signore. Non solo lo Zambia vide nell’educazione quello che il naufrago vede in una zattera di salvataggio. Anche noi depositiamo i nostri sogni in questo conto. L’anno scorso, in una sessione pubblica in Maputo una nazionalista già anziano disse, con verità e coraggio, quello che già in molti sappiamo. Confessò che lui stesso e molti di quelli che, negli anni ’60, fuggirono verso il Frelimo, non erano solo motivati da dedicazione ad una causa indipendentista. Rischiarono e varcarono la frontiera della paura per avere la possibilità di studiare. Il fascino dell’educazione come un passaporto per una vita migliore era presente in un universo in cui quasi nessuno poteva studiare. Questa restrizione era comune a tutta l’Africa. Fino al 1940 il numero di africani che frequentavano le scuole secondare non arrivava a 11.000. Oggi, la situazione è migliorata e questo numero si è moltiplicato migliaia e migliaia di volte. Il continente ha investito nella creazione di nuove capacità. E questo investimento ha prodotto, senza dubbio, risultati importanti. A pochi è chiaro, però, che più quadri tecnici non risolvono, da soli, la miseria di una nazione. Se un Paese non possiede strategie nuove per la produzione di soluzioni profonde tutto questo investimento non produrrà la differenza desiderata. Se le capacità di una nazione saranno usate per l’arricchimento rapido di una piccola elite, varrà poco avere più quadri tecnici. La scuola è un mezzo per desiderare quello che non abbiamo. La vita, poi, ci insegna ad avere quello che non desideriamo. Tra la scuola e la vita non ci rimane che essere sinceri e confessare ai più giovani che anche noi non sappiamo, e che anche noi, professori e padri, siamo alla ricerca di risposte. Con il nuovo governo è rinata la lotta per la auto-stima. Questo è corretto e opportuno. Dobbiamo piacere a noi stessi, dobbiamo credere nelle nostre capacità. Ma questo appello all’amor proprio non può essere fondato su una vanità vuota, su una specie di futile narcisismo. Alcuni credono di riscattare questo orgoglio guardando al passato. E’ vero che bisogna sentire che abbiamo radici e che queste radici ci onorano. Ma l’auto-stima non può essere costruita solo di materiale del passato. In verità, esiste un solo modo di valorizzarci: è attraverso il lavoro, attraverso le cose che siamo in grado di fare. Dobbiamo saper accettare questa condizione senza complessi e senza vergogna: siamo poveri. O meglio, siamo stati impoveriti dalla Storia. Ma noi facciamo parte di questa Storia, siamo stati impoveriti anche da noi stessi. La ragione dei nostri attuali e futuri fallimenti abita anche dentro di noi. Ma anche la forza di superare la nostra condizione storica risiede dentro di noi. Sapremo, come già abbiamo saputo, conquistare la certezza di essere produttori del nostro destino. Avremo più orgoglio nell’essere noi stessi: mozambicani costruttori di un tempo e di un luogo dove nascere tutti i giorni. E’ per questo che vale la pena accettare di levarci non solo queste sette ma tutte le scarpe che ritardano la nostra marcia collettiva.
Perché la verità è una: è meglio camminare scalzi che inciampare con le scarpe degli altri.
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