Pochi giorni fa ho letto su Repubblica un breve articolo molto interessante e condivisibile, il racconto di un pediatra di base alle prese con i problemi dei medici extra-urbani.
Lo riporto integralmente qui di seguito:
Disagi e pochi soldi ma mi sento realizzato
Nuove famiglie, piene di bambini allegri, coppie giovani e coraggiose hanno scelto di stare dove sono nati. Oppure ci sono arrivati perché è qui che si riesce a comprare o affittare una casa con pochi soldi, un posto scomodo, ma dove l’aria è buona e il cibo costa meno.
Non arrivo a 400 assistiti, proprio pochi, come pochi sono i soldi che passa l’Asl. Per raggiungere un numero che permetta un salario meno striminzito, bisognerebbe allargare l’area, affittare altri ambulatori da colleghi disponibili in comuni limitrofi, attendere anni che la gente ti conosca, il passaparola ti sia favorevole, qualche collega più anziano vada in pensione. Fare il medico in queste condizioni non paga. Basta fare due conti e ti rendi conto che tra gasolio e autostrada, affitto e imprevisti, quel che resta in mano alla fine del mese (pagato con ritardo cronico e ancora da tassare sul reddito cumulato) è poco: 1.300 euro. All’età in cui qualunque professionista “affermato” dovrebbe trarre frutto da una vita di lavoro, mi ritrovo con un salario da borsa di studio. Sarà questo che mi fa sentire così giovane? Credo piuttosto sia un altro tipo di gratificazione: sono un medico “curante” e faccio il mestiere che ho sempre desiderato. La gente mi chiama e chiede un aiuto pratico per risolvere problemi concreti: bambini che non crescono, dormono poco, mangiano male, incontrano virus, funghi e batteri, li scambiano tra asili e scuole, verificano quanto sia facile accendere focolai e vomitare a decine tutti insieme per due giorni di seguito.
Curarli è bello eppure non è facile; insegnare che gli antibiotici non si usano al primo apparire della febbre, che gli esami si fanno se esiste una ragione, gli specialisti vano chiamati se davvero ce n’è bisogno e su quesiti non vaghi, il pronto soccorso non è un posto della domenica, scelto perché un padre preoccupato alimenta l’ansia della madre. Il telefono domenicale è quello della guardia medica. Il curante è chiuso nel proprio weekend dal venerdì sera e non è facile reagire con distacco di fronte a un termometro che indica 38° centigradi.
Medico di campagna. Figura quasi romantica e dal profilo antico, eppure modernissima. È lui a giocare la parte più importante della Moderna Medicina. Se funziona, si evita lo spreco di ricoveri ed esami inutili, inutili complicazioni di malattie prevedibili, l’inutile accumulo di medicine scadute nelle case. Ma le nostre facoltà di Medicina selezionano i giovani con quiz alla “Rischiatutto“ ed insegnano loro quasi tutto sulle sofisticatissime tecnologie del DNA. Quasi nulla su cosa significhi curare la gente. Non parlo di vecchi contadini ostinati e inamovibili ma di giovani precari, coppie miste, lavoratori immigrati: le energie più vitali per il nostro futuro. Per necessità o virtù, hanno scoperto una qualità di vita possibile fuori dal caos metropolitano. Ma i curanti sono pochi e resta loro nient’altro che portare il malato in ospedale. Tanto sinora sprecare si può.
La medicina moderna può aspettare.
Paolo Cornaglia Ferraris
Nessun commento:
Posta un commento