Per il 100° post del Blog, ecco come ho festeggiato il mio compleanno...
...dunque…il 25 passiamo la giornata in un vero e proprio paradiso tropicale nell’arcipelago delle Quirimbas, nel nord del Mozambico: su una spiaggia bianca davanti ad un mare che non ci credi, passeggiata tra le capanne del villaggio di pescatori, cena con frutti di mare, a lume di lanterna a gasolio in riva al mare… …e fin qui tutto bene, anzi una meraviglia; varrebbe quasi la pena passare anche il sabato, giorno del mio compleanno, in questo posto paradisiaco, o no?...No! Stretti con i tempi della tabella di marcia, decidiamo di spostarci e proseguire il viaggio di rientro verso Beira. La giornata comincia con sveglia alle 4.15 (am!!) per essere pronti zaini in spalla e prendere lo chapa (mezzo di trasporto pubblico locale) delle 5 (il primo e anche l’unico del giorno). Operativi e puntuali (la prima volta in tutto il viaggio), ancora accecati dalle cispe negli occhi, aspettiamo sotto una leggera pioggerella che fa temere per il peggio, ma che, fortunatamente, cessa dopo pochi minuti. In perfetto ritardo di un’ora arriva il nostro mezzo di trasporto, un camioncino con cassone aperto su cui sono già sistemate una decina di persone sedute sui rispettivi sacchi e borsoni. Lanciamo gli zaini sul cassone e saliamo un po’ impacciati (io ho fallito il mio solito tentativo di Fosbury) sotto lo sguardo fisso e un po’ stranito degli altri passeggeri, che da subito cominciano a ridacchiare e commentare in lingua locale, di cui capiamo solo la parola muzungu (uomo bianco). Finalmente partiamo, ma ogni 10-20 minuti ci fermiamo per caricare altre persone; uno addirittura carica un motorino sul retro del cassone! Poi iniziano a salire le immancabili signore, più o meno giovani, avvolte dalle capulane multi-colore per ripararsi dal vento, piene di bambini, e pure di galline che fanno casino fino a quando vengono “calmate” dagli altri passeggeri (immagino con la intramontabile tecnica del “tiraggio del collo”). La mia posizione è scomodissima e dopo mezz’ora di viaggio già non sento più il piede sinistro! Ad ogni buca che prendiamo tutti ci solleviamo di mezzo metro, e ad ogni salto ne approfitto per tentare di incastrarmi meglio, mentre il cassone continua a riempirsi inesorabilmente. Ad ogni sosta vediamo una folla di gente che deve salire e ci chiediamo come sia possibile caricare tutti, ma ogni volta ci stupiamo di come l’addetto al palco VIP trovi una soluzione. Le donne continuano a fissarci, una bambina ci guarda e piange, immagino spaventata dall’uomo bianco (beh, come darle torto!); una vecchia ci fissa con una sigaretta piantata in bocca…al contrario!!...guardo meglio, sì ha proprio il filtro fuori dalla bocca e la parte accesa dentro, e il fumo che esce quando apre un po’ le labbra; una tecnica che da queste parti avrei poi rivisto più volte. Dopo più di due ore la prima tappa del viaggio è quasi alla fine; prima di arrivare alla fermata degli chapa, ci fermiamo per una sosta-bagno, e in molti ci sparpagliamo vicino al camioncino; anche le donne ne approfittano per andare in bagno, sedendosi a terra e “scampanando” le capulane. Arrivati finalmente a destinazione, saltiamo giù dal cassone e tiriamo giù lo zaino, ma mentre tento di aprire una tasca, la cerniera mi rimane in mano, facendomi sospettare che la giornata potrebbe avere altre sorprese in serbo per noi. La seconda tappa è fin troppo facile: saliamo su un autobus, posti a sedere, ordinato, quasi pulito, addetto ai biglietti che passa a ritirare i soldi con tanto di ricevuta; purtroppo finisce presto, dopo mezz’ora è già ora di scendere, siamo arrivati all’incrocio con la strada sterrata che dobbiamo prendere. Ormai ci sembra di essere a buon punto con il nostro viaggio e ci sediamo sotto un albero fiduciosi di arrivare presto a destinazione…e aspettiamo…aspettiamo…aspettiamo, e così passano due lunghe ore di attesa, fino a quando arriva un altro camioncino con cassone (ancora!). Saliamo tutti ordinatamente, e il gruppo appare più organizzato di quello della mattina, e cerchiamo di disporre al meglio le nostre cose; questa volta al posto del motorino ci sono due biciclette, e al posto delle galline c’è un’enorme capra che hanno legato per le zampe e sbattuto sul cassone, ovviamente di fianco a me! Il viaggio prosegue bene, a parte un pedale della bici che ogni tanto mi entra nel fianco destro, e la povera bestia che continua a lamentarsi gridandomi nelle orecchie. Giunti ad una salita con fondo sabbioso il camioncino si impianta; tutti gli uomini giù, a liberare i pneumatici dalla sabbia, scavare un solco davanti alle ruote, e poi spingere: prima di arrivare alla fine della salita ci blocchiamo almeno altre tre volte e ogni volta ripetiamo lo stesso rituale. A me tocca il posto del muzungu (uomo bianco e anche un po’ coglione), ovvero esattamente dietro la ruota posteriore sinistra; e mentre sono lì sotto il sole a picco di mezzogiorno, sudato fradicio, a spingere ‘sto maledetto carrozzone mentre le ruote mi sparano in faccia chili di sabbia, mi chiedo come cazzo ci è venuto in mente di lasciare la spiaggietta con le palme!! Ripigliati dalla fatica e asciugati dal vento, arriviamo senza ulteriori problemi a Bilibiza, dove termina la corsa del nostro “autobus” e siamo costretti a scendere per prendere la “coincidenza” per il porto di Quissanga (il piccolo porto dove, tra l’altro, abbiamo parcheggiato la macchina quasi in ebollizione giorni prima!). Altro albero, altra attesa, mentre davanti a noi scorre il tranquillo sabato di Bilibiza:
ore 12 mangiamo dei panini spiaccicati dentro gli zaini e apriamo una papaia;
ore 13 bambini giocano e corrono lungo la strada; a turno si fermano per osservare gli strani tipi con gli zaini seduti all’ombra dell’albero; le bambine sorridono e scappano, i maschi più temerari ballano davanti a noi, un ragazzino passa e ci mostra il culo, io penso ad una usanza del posto per dire “Ciao e benvenuti a Bilibiza”;
ore 14 il solito sbronzo (in anticipo sui festeggiamenti della notte) barcolla lungo la strada e comincia ad insultare e spintonare tutti; io dentro di me immagino già la scena in cui si accorge della nostra presenza e allora altro che mostrarci il culo! Ma un gruppo di suoi “amici” interviene e lo randella di manate e lo trascina in mutande per tutto il villaggio fino a casa;
ore 15 gli anziani del villaggio camminano con le braccia incrociate dietro la schiena (mancano solo i cantieri per commentare i lavori);
ore 16 donne cantano e battono il pilão a ritmo per pelare il riso;
ore 17 ragazzi e ragazze passeggiano sfoderando armi di seduzione e riti di corteggiamento (insomma la classica vasca del sabato pomeriggio in centro).
E così passa il nostro pomeriggio, in attesa, vana, di un mezzo per concludere lo spostamento previsto. E così, mentre il sole scappa a nascondersi dietro gli alberi, ci rendiamo conto che il nostro viaggio termina qui, uno dei posti più sfigati in cui puoi rimanere bloccato! Iniziamo a pensare a dove accamparci per la notte, anche se Bilibiza non è famosa per i suoi mega-hotel, e la guida del Mozambico ci conferma, testuali parole, che “a Bilibiza non c’è una minchia!”. Una possibilità sarebbe dormire dentro al Centro di Salute, o fingendoci malati (beh, io un po’ di fegato marcio ce l’ho), o chiedendo ospitalità in qualità di muganga in trasferta da Beira, ma purtroppo l’infermiere responsabile sta giocando a pallone, ci dicono. Così, di nuovo, ci sediamo ad aspettarlo (ormai ho sviluppato una calma zen, o forse sarà la saggezza dei 33 anni). Ma ad un certo punto la svolta imprevista: passa una macchina (la prima in tutto il pomeriggio) guidata da un indiano a cui chiediamo informazioni sul trasporto e sulle possibilità di alloggio. Purtroppo non ci sono buone notizie: trasporti non ne passano fino al giorno dopo, e alloggi neanche a parlarne. Lui impietosito dalle lacrime che ormai rigano le mie più-vecchie-di-ieri guance, ci offre una tenda nell’accampamento della sua ditta (ditta che si occupa di scavare pozzi per il rifornimento di acqua nella zona) e si offre di accompagnarci alla macchina il giorno dopo, e io, commosso e incredulo, mi trattengo a stento dal baciarlo; e così ci accompagna col gippone fino al campo, ci sistemiamo nella tenda, ci rinfreschiamo nella latrina, chiacchieriamo amabilmente con il nostro salvatore, e ci prepariamo a gustare la cena per il mio compleanno, un panino a testa con tonno e pomodoro, avanzo della giornata di viaggio. Così termina un magnifico trentesimo compleanno, cominciato male, proseguito peggio, finito in modo inaspettato a Bilibiza, posto in-culo-ai-lupi, dove fortunatamente la sorte, o chi per essa, ci è venuta in aiuto e ha evitato che la giornata finisse come già immaginavo e temevo:
Finale 1: morti di fame e stenti a Bilibiza, versione un po’ sfigata di “Into the wild”;
Finale 2: l’ubriacone molesto si ripiglia dalla sbronza, mi vede e mi scambia per uno di quelli che l’ha trascinato per le palle per la strada, e mi riserva lo stesso trattamento;
Finale 3: gli anziani del villaggio ci credono portoghesi tornati per far rinascere l’epoca coloniale a Bilibiza, e decidono di eliminarci mediante impalamento sulla pubblica piazza con il pilão delle signore, mentre i bambini fanno festa tutti intorno, e il ragazzino stronzo ci rimostra il culo!
2 commenti:
Finale 4: l'indiano ci ripensa ed il giorno dopo vi riporta esattamente dove vi ha pescati, ma senza panini al tonno...
Buon compleanno Gianlu, quando tornate si festeggia con una sontuosa cena da me preparata.
Abbracci a profusione ad entrambi gli intrepidi viaggiatori.
L.Semoli
I happen to you to greet after a few days of vacations
The strong one embraced from Reus
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